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Maria Antonietta Nardone

La vedova bambina


WATER - (2005)

di Deepa Mehta

con Sarala Kariyawasam, Seema Biswas, Lisa Ray, John Abraham



L’intenso e dolente film della regista indiana Deepa Mehta, attraverso il racconto della storia di Chuyia, una vedova bambina di sette anni, descrive l’invivibile ed umiliante condizione delle vedove in India, ieri, nel 1938, anno di rappresentazione del film, come oggi, in cui secondo il censimento del 2001 ci sono 31 milioni di vedove in India, e la sola differenza rispetto a settanta anni fa è che oggi negli ashram non ci sono più vedove bambine sebbene non manchino esseri femminili molto, molto giovani.

La piccola Chuyia, dopo un matrimonio combinato dalla famiglia - come accade in India nel 95% dei casi - rimasta vedova, viene condotta dai genitori in un ashram dove vivono solo vedove. Ribelle, allegra, scherzosa e soprattutto speranzosa di ritornare alla propria vita di prima, Chuyia impara a conoscere le varie personalità delle altre vedove e, attraverso il suo sguardo e la sua indomita vitalità, attraversa non solo la condizione di estrema restrizione in cui è costretta a vivere una vedova, ma anche l’orrore di quanto avviene in questo ashram (sorta di istituto para-religioso che vive di donazioni ed elemosina altrui) col candore incantevole, e a volte crudele, della sua età finché, agnello sacrificale già deputato dall’anziana maitresse della “casa”, non verrà ignobilmente portata ad essere stuprata da un ricco bramino della zona, in cambio di qualche rupia con cui comprare da mangiare. E lo sguardo spento della bambina, verso la fine, è lo spegnimento dell’anima di un essere in formazione precocemente violato e violentato, sia fisicamente (dal bramino) sia psicologicamente (dalla condizione in cui la pressione sociale induce a vivere le vedove). Uno sguardo che lascia dentro lo/la spettatrice una grande ed irriconciliata tristezza.

E Deepa Mehta non indietreggia davanti alla tortura a cui sono sottoposte le vedove in nome di un rispetto della religione che è solo una ipocrita copertura di ragioni più concretamente economiche; «una bocca in meno da sfamare» in un paese, l’India, che ha un’organizzazione famigliare, castale e religiosa così vincolante, nonostante l’esistenza di leggi liberali, da schiacciare qualsiasi umanità.

Così come non retrocede davanti al dilemma fede o coscienza? La figura di Gandhi, nel film, è a rappresentare un motivo di speranza, di autentico riscatto da millenarie quanto spietate tradizioni, ma è anche oggetto di caustica ironia quando si sente la battuta:«Se gli intoccabili sono “figli di Dio” allora gli eunuchi sono i suoi figliastri!».

Il film è cinematograficamente bello, con attori e attrici bravissimi - incomparabile la grazia e la tenerezza della bambina che interpreta la piccola protagonista, Sarala Kariyawasam, l’attrice-bambina nata in Sri Lanka -, bella fotografia, sceneggiatura asciutta, scenografia accurata e costumi appropriati; ho ancora negli occhi la luce sui ghat e i bianchi sari delle vedove che attraversano il mondo circostante come autentici fantasmi: non vanno toccate e la loro ombra non può sfiorare quella dei bramini intenti ad espletare funzioni religiose.

Per la cronaca il film, di produzione canadese, ha subito un rinvio di cinque anni perché quando nel 2000 tutto era pronto sul Gange, a Varanasi, più nota agli occidentali come Benares, la città santa, la città dove ogni hindu si augura di morire; quando set, attrezzatura, tutto era stato allestito, un gruppo di fondamentalisti hindu appartenenti ad uno dei gruppi più fanatici e violenti ha distrutto le attrezzature e bruciato tutto il set, oltre alle fotografie della regista sulla pubblica piazza, costringendo la produzione a girare, anni dopo, in Sri Lanka, con un cast diverso e nel più totale riserbo. Onore, quindi, alla tenacia di tutti quelli che hanno voluto, fortissimamente voluto fare questo film, che illumina con arte e coraggio un tipo di oppressione delle donne indegno di un paese democratico («la più grande democrazia del mondo») e di un pensiero filosofico tra i più profondi e complessi che l’uomo sia stato capace di elaborare.



(pubblicato sul n. 42-2007 de il filorosso e nel mio libro Fango e luce, Edizioni del Faro - 2014)

Maria Antonietta Nardone © Tutti i diritti riservati



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