I passi del Kailash
Ho fatto molti pellegrinaggi in Asia. Dal Gange a Varanasi allo Bagmati a Pashupatinah, dalla Tana della tigre in Bhutan al monastero di Tawang in Arunachal Pradesh, dal Picco di Adamo in Sri Lanka al tempio Jagannath a Puri in Orissa, dalla collina di Arunachala in Tamil Nadu allo Sravanabelagola in Karnataka, dalla Girnar Hill dei 10.000 scalini ai templi di Palitana dei 3.800 scalini, entrambi in Gujarat. E questi solo per citarne alcuni.
Ho fatto pellegrinaggi e kore, ho visitato i monasteri più sperduti e le grotte più impervie ed inaccessibili dove hanno meditato grandi maestri come Marpa, Naropa, Milarepa, Atisha, Padmasambhava e il più recente Maharshi. Eppure mi mancava il pellegrinaggio dei pellegrinaggi: la circoambulazione del Kailash, la montagna più venerata del continente asiatico, sacra ai bön, agli hindu, ai buddhisti e ai jaina.
La montagna considerata l’axis mundi, il centro del mondo, il centro metafisico del mondo, la dimora di Shiva e della sua consorte Parvati, il luogo dei mille Buddha e Bodhisattva, il monte Ashtapada dove il fondatore della religione Rishabanatha ebbe l’illuminazione, “la montagna dalle nove svastiche contrapposte”, sulla quale il fondatore della religione bön, Thonpa Shenrab, discese dal cielo sulla terra.
Da secoli il Kailash attrae milioni di pellegrini che girano in senso rigorosamente orario attorno alla vetta innevata mai violata (eccetto i bön che percorrono il cammino in senso antiorario). La kora si svolge in tre giorni di cammino e copre 53 chilometri (per altri 56 km.) con un’altitudine che va dai 4.670 metri ai 5.630 metri (al Drolma-la).
«Il pellegrinaggio è un’azione, non una teoria, e meno ancora una dottrina» così ricordo a me stessa prima di incominciare.
Il mattino del 18 agosto 2019 inizia da Darchen il 1° giorno di kora. Si arriva al Tarboche, lì dove i tibetani innalzano il palo sacro durante la festa del Saka Dawa, a fine maggio. C’è il sole. Il monte Kailash appare in tutta la sua illuminata imponenza. Appaiono anche diversi pellegrini, chi salmodiando il mantra om mani padme hum, chi girando la ruota di preghiera, chi facendo la chaktsal, ossia inginocchiandosi e sdraiandosi a terra con delle tavolette legate alle mani e delle ginocchiere alle ginocchia; praticamente una continua prostrazione a terra.
Dopo aver percorso 24 chilometri di un sentiero saliscendi si arriva a Drira Puk, dove si dormirà nella guest-house del monastero. Dalla camera in cui dormo, si vede la parete nord del monte sacro. Sto a lungo seduta su un sasso a contemplare la montagna, la cui vetta è coperta da nuvole dispettose.
Il 19 agosto si apre il 2° giorno di kora, quello più impegnativo. Si parte che è ancora buio e si cammina per più di un’ora grazie alla luce della torcia frontale. Quando rischiara, prendo atto che il tempo è nuvoloso. Bisogna affrontare una lunga salita di 550 m. che porta al passo, il Drolma-la; una salita in tre tranches di 150 metri ciascuna. Fare trekking a queste altitudini (oltre i cinquemila metri) non è agevole. A volte sembra che l’aria faccia fatica ad entrare nei polmoni. Proseguo tenendo sempre il mio passo – come consigliano i veri montanari. Non accelero mai, soprattutto in salita. Questo giro non è una gara; ha un significato altro. Nevischia. Procedo. Al passo vedo Dawa, la nostra formidabile guida tibetana, che mi sorride e si congratula con me per aver raggiunto questo punto. Penso alle persone a me più care, vive o «passed away», come dicono qui. Le visualizzo non solo fisicamente ma anche e soprattutto interiormente. Dawa mi aiuta a legare le bandierine di preghiera a loro dedicate. Fa freddo e tira un vento che gela la schiena. È ora di scendere. Ma la discesa del passo non segna la fine del percorso. Ci sono ancora 14 chilometri di saliscendi da fare prima di arrivare a Zultul Puk, dove si dormirà nella guest-house del monastero omonimo. Dopo circa dieci ore complessive di trekking e cammino, per un totale di 21 chilometri complessivi, si arriva al monastero che ci ospita.
Il 2° giorno della kora? Fatica e resistenza. E grande forza mentale per arrivare fino alla fine. In qualche modo è riemersa l’atleta che fui una vita fa.
Dieci ore di sonno benedetto e il mattino del 20 agosto sono pronta ad affrontare il 3° giorno di kora. La camminata di 10 chilometri dura solo 3 ore da Zultul Puk fino a Darchen, dove si chiude la circoambulazione del Kailash, ed è allietata da un sole luccicante che colora il Brahmaputra, le gole, i pianori e i monti lontani con una qualità della luce che si trova solo a queste latitudini ed altitudini.
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Fin qui mi sono concentrata sull’esperienza fisica, ma è quella spirituale quella che mi ha più profondamente segnato. E non è un caso che io abbia fatto davvero poche fotografie durante l’intera kora. Era altro quello che mi premeva fissare. E non certo su una pellicola o su una memory card.
Quando si tratta di riportare un percorso spirituale non si può che balbettare.
Questi sono alcuni dei miei balbettii.
Arrivare al Kailash, arrivare a vedere la vetta splendente di neve della montagna sacra, a vedere la sua essenzialità terrena circondata dal vuoto dell’altipiano, dopo esser stati a Kathmandu e nella sua valle, dove gli spazi sono pienissimi di templi e tempietti, di porte e di finestre riccamente intagliate, di statue e di stupa; dopo aver percorso il Tibet, da Lhasa verso il regno di Guge, ed aver visto i più importanti monasteri dei gelupca (Ganden e Sera) per non parlare del Kumbun a Gyantse e di Tashilumpo, tutti ricchi di affreschi, statue e tangka pregiati, dà un grande senso di vertigine. È un autentico cammino spirituale che dal pieno conduce al vuoto. Che dalla pianura conduce alla montagna sacra, ai piedi della montagna sacra, riproducendo un percorso anche interiore che dal pieno porti al vuoto, che dal basso porti verso l’alto, superando i vari livelli che portano alla liberazione (qui, per me, non definitiva).
In questo vuoto fatto di vento, nuvole, neve, montagne, realizzare pienamente che non si è solo storia, ma altro. Anche e soprattutto, altro. In queste altitudini scabre e desolate la storia, l’essere storico cede il passo all’essere tout court, all’Atman. Ed è grazie a questa cessione che si può non identificarsi con un destino esclusivamente storico. Ah, finalmente! Una realizzazione che è un’altra liberazione.
Non siamo affatto stanziali. Prepariamo dei rifugi, vi ci accomodiamo, ci convinciamo che essi siano le nostre imprescindibili case. Ma non è così. Le nostre anime sono nomadi. Nomadi ed alate. E, a rimanere ferme in uno stesso luogo per lunghi periodi, soffrono. Soffrono terribilmente.
Guardarsi i piedi mentre si fa la kora. Concentrarsi sui propri piedi che si alternano uno all’altro. Scandire i propri passi come in una danza misteriosa eppure consistentissima. Una danza in cui si è gambe e fiato. Gambe e fiato che diventano un tutt’uno. E che si accordano con il suono indefesso del vento che, a queste altezze, non manca mai. Gambe, fiato e vento. Dove predomina il respiro, bè, si è in presenza della psiche, dell’anima, dello Spirito, di quello Spirito che soffia dove vuole…
Ogni volta che cammino, non in città, ma in sentieri solitari, in pineta o in montagna, sento dentro di me i passi come definitivi fatti attorno al Kailash, la montagna sacra. Sì, ora posso dire e riconoscere che i passi del Kailash sono ormai in me.
Il monte Kailash (Tibet – agosto 2019)
Pellegrina presso il Tarboche (Tibet – agosto 2019)
Pellegrino sul sentiero della kora (Tibet – agosto 2019)
Al Drolma-la - il passo di 5.630 m. (Tibet – agosto 2019)
Cumuli votivi di preghiera lungo il cammino della kora (Tibet – agosto 2019)
Pellegrina che pratica il chaktsal (la prostrazione a terra) durante la kora (Tibet – agosto 2019)
Nuvole lungo il cammino (Tibet – agosto 2019)
Il monte Kailash visto da Darchen (Tibet – agosto 2019)
Maria Antonietta Nardone © Tutti i diritti riservati