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Maria Antonietta Nardone

Le sorelle oscurate


Locandina del film presa dal web

(Locandina del film presa dal web)

LA VITA INVISIBILE DI EURÍDICE GUSMÃO

di Karim Aïnouz

con Carol Duarte, Julia Stockler, Gregório Duvivier, Barbara Santos, Flavia Gusmão, Maria Manoella, Fernanda Montenegro, António Fonseca

Che film potente, intenso, durissimo eppure allo stesso tempo delicato ha girato Karim Aïnouz! E che incipit folgorante! Due sorelle, Guida e Eurídice, si attardano nella foresta brasiliana. Quando la maggiore, Guida, decide di risalire, lascia dietro Eurídice che la chiama, la chiama senza riuscire a vederla. Inquietudine e paura si insinuano nel suo animo. E in quello degli spettatori. È un incipit tristemente premonitore: le due sorelle si perdono una all’altra nella esuberante, ma pericolosissima giungla tropicale.

Siamo nella Rio de Jainero degli anni Cinquanta. Le due crescono in una famiglia di stampo conservatore e di rigidissimo controllo. Ma entrambe hanno i loro sogni e le loro aspirazioni. Se Guida, 20 anni, desidera un amore grande e passionale (più esattamente sogna la libertà di decidere della propria vita), Eurídice, 18 anni, studia pianoforte e sogna di essere ammessa al conservatorio di Vienna. Una notte, Guida, esce di nascosto di casa per incontrarsi con Yorgos, il marinaio greco da cui è fortemente attratta.

Rientrerà a casa un anno dopo, incinta, e senza marito. Il padre, con una crudeltà che atterrisce, la caccia di casa. Non solo; le racconterà una menzogna su Eurídice, che nel frattempo, obbedendo alla volontà paterna, si è sposata con Antenor, un macho-caprone di una rozzezza imbarazzante. Una menzogna che dividerà per sempre le loro strade.

Da questo momento inizia una narrazione parallela delle due sorelle: la disobbediente, la ribelle Guida è costretta ad una vita di stenti e difficoltà, con la responsabilità di crescere un figlio tutta da sola. L’obbediente Eurídice, pur vivendo in una casa e in una condizione agiata, non sarà però al riparo dalla violenza sopraffattrice del marito (la sua prima notte di nozze è da brividi di rabbia e di dolore). Eppure, entrambe, continueranno a cercarsi ostinatamente, chi scrivendo una miriade di lettere toccanti, chi, ingaggiando addirittura un detective privato nella ricerca della sorella scomparsa. E questo per anni e anni e anni. E il ricordo struggente di quel legame, di quell’amore incondizionato tra sorelle non le abbandona mai nonostante la vita che conducono sia avarissima di soddisfazioni, sia per l’una sia per l’altra. Anzi, per Eurídice, la forza di quell’amore è perfino occasione di ispirazione artistica (la scena della sua audizione è emblematica e commovente).

Il regista brasiliano filma un affresco feroce del patriarcato e del maschilismo che imperversavano negli anni Cinquanta e seguenti nel suo paese – ma nessuna epoca e nessun paese può dirsi immune dal patriarcato; e lo fa con una struttura narrativa avvincente, con un uso raffinato dei colori carichi ed accesi, direi almodòvariani – soprattutto il rosso – che conquistano lo spettatore. E tratteggia un patriarcato sostanzialmente non solo misogino, ma anche misandrico perché annienta tanto la bellezza della donna e di essere donna quanto la bellezza dell’uomo e di essere uomo.

Gli uomini adulti, difatti, che siano padri, fidanzati, mariti, ginecologi, detective, compagni di lavoro sono tutti duri, crudeli, prevaricatori, quasi inverosimili tanto sono eccessivi nella loro ottusa sopraffazione. L’unica traccia di un maschile gentile ed intelligente è rappresentata dal bambino Chico, il figlio di Guida – come a dire, la speranza è nelle generazioni future.

La prepotenza, la violenza, la repressione operano fino all’oscuramento completo di quelli che erano i sogni e le aspirazioni delle due sorelle. Perfino i diminutivi, Diciña per Eurídice, e Guida per Ana Margarida, contrazioni dei loro nomi interi, a me pare che rimandino alla contrazione dei sogni e delle aspirazioni di queste sorelle mancanti a se stesse oltre che l’una all’altra. Un oscuramento che non riuscirà tuttavia mai a spegnere il desiderio di ritrovarsi e di vivere finalmente unite.

È anche un film sul corpo delle donne. Sulla violenza che scandisce la sessualità, la maternità, la malattia, la sofferenza spirituale di un essere nato in un corpo femminile. Le scene di sesso sono straordinarie per autenticità fisica e psicologica senza alcuna edulcorazione o formalistica patinatura. E sul loro desiderio: in questa storia, il desiderio di sperimentare una vita fuori dalle regole dettate dai benpensanti e il desiderio di essere una grande pianista.

È un film di porti, di mare, di navi così come di interni eleganti o poveri, entrambi pieni di muri e di pareti divisorie. È un film di porte e cancelli o cancelletti in cui rinchiudersi o da cui cacciare via “il disonore” della famiglia. E nitida è la critica che Aïnouz muove alla famiglia intesa nel suo esclusivo legame di sangue:«La famiglia non è sangue, è amore» riconosce Guida quando si prende cura di Filomena, l’anziana prostituta che l’accolse nella propria casa come la propria stessa madre non poté e non seppe fare. Perché alle mogli e alle madri non resta che zittirsi e piangere di nascosto. Oppure subire gravidanze indesiderate, usate dai mariti per spegnere qualsiasi ambizione artistica – come capita ad Eurídice. Anche se poi il regista ha raccontato soprattutto il loro legame viscerale (e, comunque, di sangue) che sembra quasi il sentirsi subliminale delle gemelle più che quello di “semplici” sorelle.

Il tutto intervallato dalle musiche sublimi di Chopin, Grieg e Lizts. E servito da una splendida e commovente recitazione delle due protagoniste, attrici davvero luminose. Julia Stockel è una Guida così vivace, così coraggiosa, così struggente da rendere memorabile la sua interpretazione. Carol Duarte, dal canto suo, incarna a meraviglia la rabbiosa e finta sottomissione di Eurídice, la sua tenacia nel perseguire la sua vocazione di pianista e il suo sconfitto sbigottimento davanti all’ennesima disillusione.

Con un cameo finale di Fernanda Montenegro che mi ha profondamente colpito per la sua finissima essenzialità. Quella Fernanda Montenegro, la grande attrice brasiliana, ammirata in Central do Brasil di Walter Salles (1998) e mai dimenticata.

Per dovere di cronaca cinematografica informo che A vida invisìvel (titolo originale del film) ha vinto il premio nella sezione Un Certain Regard al Festival di Cannes 2019 oltre ad essere il film che il Brasile candida all’Oscar 2020.


Maria Antonietta Nardone © Tutti i diritti riservati



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