Servitori e padroni
(Foto della locandina presa dal web)
PARASITE di Bong Joon-ho
con Song Kang-ho, Lee Sun-kyun, ChoYeo-jeong, Chang Hyae-jin, Park So-dam, Choi Woo-shik, Lee Jeong-eun
Con uno spietato ritratto di famiglia (o più famiglie) in un interno (o più interni), il regista sud-coreano Bong Joon-ho filma una delle pellicole più caustiche e potenti di questi ultimi anni. I Kim (padre, madre, figlio e figlia) vivono in uno stretto e sporco seminterrato di Seul e si arrangiano a vivere piegando cartoni per la pizza. I Park (padre, madre, figlia e figlio) vivono in una luminosa e silenziosa villa in collina, progettata da un celebre architetto del paese. Il capofamiglia è un dirigente di un’azienda informatica mentre la moglie attende all’educazione dei figli e all’andamento della casa, coadiuvata da una governante-tuttofare. I Kim vedono il mondo da una mezza finestra della loro casa buia e invasa dagli scarafaggi; i Park hanno una vetrata a parete che dà su un giardino verdissimo e soleggiato. Con un’escamotage fornitogli da un amico, Ke-woo, il primogenito dei Kim, entra nella famiglia dei ricchi Park, diventando l’insegnante d’inglese della figlia. Con raggiri vari, e senza che nulla si sappia del loro legame famigliare, tutti i membri della famiglia Kim s’insediano a lavorare per la famiglia Park. Ed è come una moltiplicazione di parassiti che si siano sostituiti ai precedenti, scalzandoli.
Il regista segue come un entomologo la trasformazione di questo nucleo famigliare unito e allegro, finora dedito solo a qualche furbizia per racimolare i soldi per vivere, diventare infine una specie di “macchina da guerra” dell’imbroglio e dell’inganno.
Una scoperta inattesa porta al precipitare di tutti gli eventi. C’è sempre chi è più sotto di noi nelle viscere della città o di una casa (che può avere incunaboli nascosti). C’è sempre un parassita che c’era prima di te. Come un reparto d’assalto, i Kim si muovono a difendere quanto conquistato, ma non sono attrezzati a questo perciò a trionfare è la goffaggine finché la violenza nei confronti del più debole non prende il sopravvento, quasi loro malgrado.
A me non è parsa affatto una lotta di classe, perché non c’è alcuna volontà di sovvertire il sistema sociale dominante, bensì solo l’intento di “mungere” questi ricchi tanto gentili quanto ingenui, di succhiarne i tessuti vitali come parassiti, appunto. È piuttosto una lotta tra appartenenti alla stessa genìa di disperati disposti a ricorrere a qualsiasi trucco e sotterfugio pur di sopravvivere. Una lotta tra ultimi contro ultimissimi; una lotta fino all’ultimo sangue. La classe agiata, difatti, non è toccata da nulla (se non dalle proprie superficiali ambasce di mantenere e mostrare il proprio stato di benessere) e non “vede” proprio la classe subalterna, come il regista esprime magnificamente in quella specie di danza macabra che vede i vari personaggi discendere e salire le scale di una casa oppure discendere e salire le scalinate di una città.
È semmai una relazione tra servitori e padroni, ma senza un vero incontro tra le due parti. E dove i servitori risultano più scaltri e consapevoli dei loro stessi padroni – come Goldoni ci ha superbamente insegnato nelle sue commedie fin dal Settecento. C’è sempre un servitore che ascolta di nascosto dietro un muro, dietro una porta o sotto un tavolo per carpire i segreti dei padroni ed accaparrarsene o sfruttarne i favori.
L’unico vero contatto è dato dall’odore; l’odore di ravanello, di metropolitana e di straccio bagnato messo a bollire. L’odore che identifica la povertà più di qualsiasi altro elemento che può essere sempre camuffato. Per il resto, ciascuno vive nella propria “bolla” che sia un’algida ed asettica villa in stile minimalista progettata da un maestro dell’architettura nazionale, che sia l’insana tana segreta di quella stessa villa oppure lo squallido scantinato adibito ad abitazione davanti al quale giovani ubriachi si fermano ogni notte a vomitare o a svuotare la vescica.
È la descrizione chirurgica del regista nel delineare due famiglie – ma ce n’è una terza che scombussolerà tutti i piani – con le loro rispettive case, a raccontare l’insopportabile disuguaglianza sociale che affligge la società sud-coreana, e non solo. È il suo sguardo che registra come c’è chi ha il superfluo e chi non ha nemmeno il necessario per vivere. Che registra le differenti percezioni ed esperienze. Se il temporale, ad esempio, è accolto con sollievo dalla signora Park, perché la pioggia spazzerà via le nuvole ed inonderà di sole il loro bel giardino, per la famiglia Kim è un disastro che allaga loro la casa e li costringerà a riparare in una palestra assieme al popolo di sfollati che vive nella parte bassa della città, costantemente soggetta ad alluvioni ed inondazioni.
Che mostra l’uso della tecnologia (il cellulare, il pc o la wi-fi) come un’arma per frodare più che come una necessità di comunicazione. E mi pare che individui il denaro, soprattutto quello invisibile non gli spiccioli raggranellati piegando cartoni per la pizza, come l’autentico endoparassita della società sudcoreana. Gli uomini, in fondo, sono solo degli ectoparassiti: dei parassiti esterni come le zecche o le sanguisughe.
La scena del diluvio notturno che allaga i bassifondi della città, che scoperchia le fogne ed inonda le strade, che fa di alte scalinate torrenti in piena che tumultuano sotto grovigli di fili della luce che chiunque sia stato in Asia ha conosciuto e guardato con preoccupata perplessità – non a torto come si vede anche nel film – e con quella corsa che dall’alto della villa in collina porta in quella spirale quasi dantesca dove vivono i diseredati del sottosuolo e dove l’acqua si trasforma in melma fangosa che copre uomini e cose mentre i water sputano liquame come fontane impazzite e maleodoranti, è una delle scene più intense e significative che abbia visto ultimamente al cinema.
Inquadrature splendide si susseguono senza pausa e con un andamento che dalla commedia vira al thriller per finire in una delle più sanguinolente tragedie shakespeariane – qui volta al grottesco – con tanto di travestimenti, colpi di scena e fendenti all’arma bianca; e dove la morte afferra ricchi e poveri, senza distinzione. Perché il povero tutto può sopportare ma non l’umiliazione o la derisione. Non è solo il servo che non deve superare il limite pena il licenziamento – secondo la teoria del signor Park; anche il padrone deve stare attento a non superare il limite perché, diversamente, ne potrebbe andare della sua stessa vita.
Il film si è avvalso di una sceneggiatura ferrea e brillantissima, firmata dallo stesso regista assieme a Han Jin-won, dove tutto è già stato deciso e programmato al millimetro e dove i passaggi da un genere all’altro avvengono con estrema naturalezza. E tutto è stato possibile grazie anche a tutti gli interpreti, uno più bravo dell’altro: da Song Kang-ho a Park So-dam, da Lee Sun-kyun a Cho Yeo-jeong, da Lee Jeong-eun fino a Choi Woo-shik, il giovane attore che ha recitato nella parte di Jong-su in Burning, l’altro bellissimo film sud-coreano di Lee Chang-dong, uscito un mese e mezzo fa. Grazie alla fotografia ora elegante ora pastosa di Hong Kyung-po ed alla scenografia così socialmente connotativa di Lee Ha-jun.
Un film girato in maniera impeccabile, col gusto dell’humor e del divertimento, dove i personaggi più che personaggi sono tipi o funzioni che servono al regista per affrescare una satira acre ed incisiva del proprio paese e del suo iniquo sistema economico. Esilarante la presa in giro dell’art therapy o la parodia di una tipica giornalista televisiva della Corea del Nord nel suo porgere enfaticamente le notizie. Visivamente magnifico, con una tensione che non scema mai e con colpi di scena e scene-risolutorie singolari e godibilissime.
Non si salva nessuno in questa storia nera, anzi nerissima, dove nessuno è interamente buono o interamente cattivo. Forse, l’unico elemento che il regista salva sono gli affetti e i legami famigliari autenticamente sentiti e vissuti. Ed arriva a colpire lo spettatore con un finale dolente e sorprendente.
Parasite è il film che ha vinto la Palma d’oro all’ultimo Festival di Cannes (2019). Registi come con Kim Ki-duk (tutta la sua ricca filmografia), Lee Chang-dong (Poetry, Burning), Park Chan-wook (Mr.Vendetta, Old boy, Lady Vendetta, Mademoiselle) e lo stesso Bong Joon-ho (Memories of murder, Mother), tanto per citare i primi nomi che mi sono venuti in mente, sono la testimonianza della straordinaria vitalità, originalità e varietà della cinematografia sud-coreana.
Maria Antonietta Nardone © Tutti i diritti riservati