Un affare di coscienza
(Foto della locandina presa dal web)
L’UFFICIALE E LA SPIA
di Roman Polanski
con Jean Dujardin, Louis Garrel, Grégory Gadebois, Emanuelle Seigner, Hervé Pierre, Melvil Poupaud, Mathieu Amalrich
È il 15 gennaio 1895: cortile della Scuola Militare a Parigi. È un mattino livido e privo di sole. Sul selciato da cui occhieggiano cupe pozzanghere risuona il passo cadenzato del plotone che marcia davanti a migliaia di soldati ed ufficiali. Assistiamo alla degradazione del capitano Alfred Dreyfus. Gli vengono strappati i gradi e i bottoni dalla divisa – quanta violenza in quello strappo! La spada, spezzata in due, viene gettata a terra. Il volto di Dreyfus è tutto un tumulto trattenuto a stento. Il maggiore Picquart lo guarda con imperturbabile calma dal suo cannocchiale.
È questo lo splendido incipit de L’ufficiale e la spia (titolo originale J’accuse), che Roman Polanski ha tratto dal romanzo omonimo di Robert Harris e che ha vinto il gran Premio della Giuria alla 76° Mostra internazionale di arte cinematografica di Venezia.
Per ripercorrere l’Affaire Dreyfus, il caso giudiziario che sconvolse la Francia della Terza Repubblica dal 1894 al 1906, dividendola in innocentisti e colpevolisti, Harris e Polanski, che hanno scritto anche la sceneggiatura, hanno scelto un punto di vista laterale: quello del tenente colonnello Georges Picquart.
Il trentacinquenne capitano alsaziano Dreyfus è stato riconosciuto colpevole di tradimento e spionaggio a favore dell’odiata Prussia e per questo condannato all’ergastolo all’isola del Diavolo, nella Guyana francese.
Il bel maggiore Picquart, soddisfatto di sé, appagato da un’amante segreta, a proprio agio nell’esercito, viene promosso a capo dell’Unità dei Servizi Segreti che ha sede in un palazzo all’apparenza abbandonato. Cercando di fare ordine e di riorganizzare in una maniera più efficiente e decorosa gli agenti a sua disposizione, scopre, facendo dei semplici raffronti, come la calligrafia nella lettera inviata all’addetto militare tedesco non appartenga a Dreyfus bensì al maggiore Ferdinand Esterhazy. Scoperto l’errore, tenta di ristabilire la realtà dei fatti, sia con i suoi superiori, sia con il Ministro della Guerra. Qui si imbatte, con sua enorme sorpresa e profondo sconcerto, nella ferma volontà del potere militare e politico a lasciare le cose così come stanno. In fondo, Dreyfus, l’ebreo Dreyfus, è il “traditore perfetto”.
Una manipolazione che non parte per dolo, quindi, bensì per errore. Un errore, però, che una volta riconosciuto non poteva essere ammesso dai generali dell’esercito e dal ministro competente. È da qui che parte il depistaggio con la produzione di prove false e la negazione di ogni riapertura del caso. Da questo non voler riconoscere l’errore; da questa granitica ottusità. Il male è nella vanità dei generali, nelle loro piccinerie tronfie e trionfanti, nelle loro squallide complicità. Un male che porta un debordante dolore in chi ne è colpito, ma i cui fautori nemmeno se ne avvedono, perché sono esseri dall’anima minuscola per non dire assente.
Qui inizia il risveglio della coscienza di Picquart e la sua risoluzione a proseguire nella lotta per la verità. Metterà a rischio la sua carriera e perfino la sua libertà, ma non demorderà, convinto com’è che la realtà dei fatti vada ripristinata. L’uomo perde quella sua calma imperturbabilità dell’inizio ed arriverà perfino a fare a cazzotti con la vera spia o a cimentarsi in un duello.
Uscirà la famosa lettera al presidente francese di Émile Zola, il suo J’accuse pubblicato su L’Aurore; ci saranno ulteriori processi, udienze, magistrati, avvocati, prove abborracciate ed incredibili sosprusi, condanne per diffamazione ed incarcerazioni fino a che non sarà chiaro a tutti quelli che vogliono vedere che Dreyfus è innocente. Il finale del film è tutt’altro che lieto e la definitiva riabilitazione della “spia sbagliata” ci sarà solo nel 1906, dodici anni dopo l’infamante accusa.
Il regista mostra l’antisemitismo presente nella società e nell’esercito francese, fin nei ranghi più alti. Mostra come l’insulto “sporco ebreo” sia più forte dell’insulto di “traditore”. Mostra un militarismo chiuso in se stesso che non si ferma davanti a nulla pur di ostacolare la realtà dei fatti. Mostra il fastidio dei potenti nei confronti di uomini e menti libere, siano essi uno scrittore del calibro di Zola o un colonnello dell’esercito per il quale la parola onore e coscienza non sono vuoti e ipocriti simulacri.
La ricostruzione delle scene (Jean Rabasse) e dei costumi (Pascaline Chavanne) è molto accurata e, in alcuni esterni, si rifà a Monet (Déjeuner sur l’herbe a Chailly) e Renoir (i suoi tavolini de Le Moulin de la Galette), mentre negli interni, soprattutto riguardo alle aule dei tribunali, a Daumier. Quella carrellata di volti con basettoni e tocco, i colli taurini, le espressioni torve, impettite o meschine, con i giudici e gli avvocati in alto, la platea e gli accusati in basso, sono puro, inconfondibile Daumier. La riunione di scrittori ed editori dove è presente Zola, invece, sembrano Lo studio a Batignolles e Le coin de table di Fantin-Latour.
Questa accuratezza non è mai leziosa o fine a se stessa – come rischiano di solito tutti i film in costume; è al contrario sommamente espressiva, volta cioè a raccontare un mondo ed i suoi personaggi. Basti guardare come è filmato il palazzo dell’Unità dei Servizi Segreti. Ha le finestre bloccate e si sente un forte odore di fogna. In alcune stanze polverose sono nascosti carte, faldoni, archivi; in altre, si aprono le buste a secco o a vapore. Insomma, rivela tutto un mondo di trame segrete in un ambiente malsano, sia fisicamente sia moralmente.
Stupenda la fotografia plumbea e pulviscolare di Pawel Edelman; incisiva ed allo stesso tempo discreta la musica di Alexandre Desplat. Ma la grande maestria è del regista che con poche inquadrature è capace di rendere l’inaccessibilità e la solitudine estrema dell’isola del Diavolo, nel lontano oceano Atlantico: uno scoglio circondato da alte e turbolenti onde di un blu intenso macchiato da increspature bianche. Ho sentito lo schiaffo di quel vento sulla mia faccia, quel sapore di salsedine sulle labbra e, soprattutto, quella solitudine siderale nel cuore.
Per non parlare della maestria nel raccontare senza ricorrere a flashback che spezzino l’azione, ma rendendo passato, presente e prefigurazione del futuro tutto un fluido continuum, come l’intuizione dell’io di Bergson dove tutto è contemporaneo e il tempo è solo una convenzione linguistica. Quel Bergson che con quest’intuizione ispirò Proust e l’andamento compositivo e strutturale dell’intera Recherche. La lettera attribuita a Dreyfus, quel pezzo di carta riattaccato con strisce di colla giallastra diventa la madeleine intinta nel tè del piccolo Marcel; da quel pezzo di carta, come dalla madeleine, riemerge con fluidità tutto il mondo appena trascorso o più remoto.
Quel “morte agli ebrei” dipinto sulle vetrine di un negozio, poi infrante, e i roghi dei libri (qui di Zola) fanno venire i brividi. Prefigurano «i tempi più bui» della Germania nazista. Sappiamo a che cosa hanno portato nel cuore dell’Europa dal 1939 al 1945 l’antisemitismo e l’obbedienza agli ordini. Il radicato antisemitismo dell’Armée di fine Ottocento, inoltre, è in perfetta continuità con il radicato antisemitismo del governo collaborazionista di Vichy e del maresciallo Pètain, ad esempio, che è andato oltre fino a diventare antisemitismo di Stato.
Jean Dujardin incarna la probità e la risolutezza dell’ufficiale Picquart con lucente misura e profonda chiarità d’animo; Louis Garrel restituisce un Dreyfus quasi monocorde nelle sue espressioni, nella sua andatura e nelle sue proteste quasi querule. Restituisce un uomo impaurito e dalla voce flebile che si muove come un manichino, rigido ed irrigidito – così come riportano alcune cronache dell’epoca. Del resto, della spia in questa pellicola c’è solo il suo fantasma; tanto che forse sarebbe stato più consono intitolarlo “L’ufficiale e il fantasma della spia”. Grégory Gadebois, infine, dà magnificamente vita a tutta la doppiezza e la perfidia del maggiore Henry.
Il film è asciutto e rigoroso, nonostante la durata di poco più due ore. Antiretorico e senza enfasi. C’è solo qualche tratto un po’ caricaturale soprattutto dei generali e dei giudici – che comunque ci sta tutto. È un film solido e significativo, che si distacca per classe e fattura dalle due ultime e sbiadite prove del regista franco-polacco, Una Venere in pelliccia (2013) e Quello che non so di lei (2017).
Con la lettera di Zola, a cui il giorno successivo, segue, sempre su L’Aurore, la petizione a sostegno di Zola e dell’innocenza di Dreyfus, firmata da Proust, Gide, Anatole France, Mirbeau e altri artisti, nasce la figura dell’intellettuale che si sente in dovere di prendere la parola nella vita sociale del proprio paese. Come scrive Zola:«Dietro le mie azioni non si nascondono ambizione politica né passione di settario. Sono uno scrittore libero, che ha dedicato la propria vita al lavoro, che domani rientrerà nei ranghi e riprenderà la propria opera interrotta. […] E per i miei quarant’anni di lavoro, per l’autorità che la mia opera ha potuto darmi, giuro che Dreyfus è innocente». Non è un intellettuale organico ad un partito politico, ma una mente libera che si espone prendendo posizione in un violentissimo conflitto sociale e politico.
Sembra quasi che Polanski chiami e richiami gli intellettuali ad essere di nuovo la voce e la forza di un pensiero libero e coraggioso. Certo, se si pensa alla morte poco chiara dello stesso Zola avvenuta nel 1902 per una stufa ostruita, bè, c’è di che essere allarmati!
È un film, infine, che mette in campo il confronto tra la realtà dei fatti e la loro manipolazione, tra l’uso propagandistico dell’opinione pubblica e la nascita dell’intellettuale come figura che prende la parola ed interviene nella realtà, tra una rabbia sociale eterodiretta e le istanze più urgenti e profonde della coscienza di un individuo, tra la gestione del potere di un intero apparato e l’azione impavida di un singolo. Il tutto che avviene nel corpo sociale di una nazione dove scorre, nemmeno tanto sotterraneamente, la vena di un antisemitismo feroce ed inattaccabile. Questioni enormi e, nell’anno di grazia 2019, ancora bruciantemente vive.
Concludo con una considerazione fatta a scanso di ogni equivoco. Qualsiasi paragone o accostamento di questo film alla vicenda giudiziaria del regista, da chiunque sia avanzato, sia pure dall’autore stesso, è improponibile ed insensato. Questo è un film sull’accusa di tradimento, falsa, fatta ad un capitano ebreo, in quanto ebreo. Punto.
Maria Antonietta Nardone © Tutti i diritti riservati