Miss Marx c'èst moi!
(Foto della locandina presa dal web)
MISS MARX – (2020)
di Susanna Nicchiarelli
con Romola Garai, Patrick Kennedy, Felicity Montagu, John Gordon Sinclair, Karina Fernandez, Philip Gröning
Che ritratto intenso e profondo è riuscita a fare Susanna Nicchiarelli! Siamo nel 1883, in Inghilterra. Eleanor Marx, la minore delle figlie di Karl Marx, il grande filosofo che ha svelato i meccanismi ideologici ed economici del Capitale, presiede al suo funerale con parole toccanti. Sarà lei, l’amatissima ultimogenita di sei figli – i tre figli maschi muoiono tutti – a raccogliere l’eredità degli scritti e della conseguente azione politica del padre.
Conosce e si innamora di Edward Aveling, un autore di teatro ed anche attivista politico, con il quale va a convivere al di fuori del matrimonio – essendo egli già sposato. È giunto il suo momento di vivere, come reclama con forza. Fin da quando aveva sedici anni ha dovuto prendersi cura della madre malata, poi della sorella Jenny, che morirà di cancro, ed infine dello stesso celebre padre. Quindi, è ora che si possa finalmente dedicare completamente a se stessa.
Colta (ha fatto la prima traduzione in inglese di Madame Bovary), amante del teatro (ha tradotto e recitato in Casa di bambola di Ibsen), tanto appassionata quanto determinata attivista politica e sindacale che riflette sulla schiavistica condizione dei lavoratori (orari e turni di lavoro criminali che portano ad incidenti ed amputazioni), che combatte per contrastare il lavoro minorile nelle fabbriche, che accomuna con lucidità estrema il ruolo dei lavoratori nella società capitalistica a quello delle donne nella famiglia patriarcale, dove in entrambi gli ambiti vi è oppressione, sia che venga dal padrone sia che venga dal marito, conduce una vita amorosa con Aveling che le porta infelicità, insoddisfazione ed umiliazioni, ma che si ostina a portare avanti con una dolente e disarmante accettazione.
Mi pare sia qui il fulcro dell’intero film, scritto e diretto da Susanna Nicchiarelli, che si è avvalsa di un imponente materiale d’archivio, pescando soprattutto negli epistolari più intimi della famiglia Marx: la distanza siderale tra la riconosciuta figura pubblica di Eleanor Marx e le sue travagliate vicende private. Non solo una mortifera relazione amorosa, ma anche scoperte inattese e scioccanti sull’ingombrante papà, sull’adorata mamma e su Helene Demuth, la governante amica della madre, che Tussy, come veniva chiamata Eleanor in famiglia, incassa e digerisce come può.
La distanza tra teoria e applicazione della teoria alla propria privatissima realtà. Perché la signorina Marx è pienamente consapevole della sua insoddisfazione sentimentale, ma non la mette mai in discussione; è proprio incapace, prima ancora che di liberarsi di una relazione avvilente e distruttiva, di metterla in discussione – illuminante, al riguardo, è la scena in cui Olive, l’amica scrittrice sudafricana, la sprona a reagire ed ha, per tutta risposta, quell’incredibile «vorrei che gli portassi rispetto» riferito ad Aveling.
È questo, scrivevo, il fulcro del film: questa distanza, questa contraddizione, questa incapacità che la stessa cultura, lo stesso talento, la stessa determinazione di Eleanor non riescono a ridurre, comporre o superare. Perché quando certi nodi psichici sono così intrecciati e stretti, una delle sole vie salvifiche percorribili è in un lavoro psicoterapeutico paziente e profondo. Diversamente, un conflitto interiore così forte, se non sciolto, non può che portare a scelte autolesive se non addirittura autosoppressive. Nel 1895, difatti, la donna sceglierà di porre termine alla propria esistenza alla stessa maniera di Emma Bovary, l’eroina del grande romanzo di Flaubert.
E così il ritratto di questa miss Marx, imprigionata prima nell’accudimento dei propri famigliari, malati o vecchi che siano, che, come al solito, è scaricato sulle spalle delle donne (spesso delle figlie femmine) in tutte le epoche, e, dopo, in una lunga ed asfittica relazione d’amore con un uomo egoista ed infedele, risulta un ritratto pulsantemente contemporaneo. Tanto che, quante di noi, oggi, nel ventunesimo secolo, affrontando contraddizioni, conflitti e tensioni simili, potrebbero ancora dolentemente dire, mutuando sempre da Flaubert:«Miss Marx c’èst moi!».
È questa l’intuizione geniale di un film che accosta l’Ottocento al nostro stesso tempo. È questa l’intuizione che fa di Miss Marx una nostra contemporanea più ancora che l’uso visionario di una strepitosa colonna sonora che attraverso i Downtown Boys e i Gatto Ciliegia contro il Grande Freddo rivisita in versione punk rock celebri brani come L’Internazionale, A Wall e Dancer in the dark, solo per citarne alcuni.
Asciutta e senza fronzoli è la regia di Susanna Nicchiarelli che inserisce fulminanti fotogrammi d’epoca o brevi flashback di Eleanor bambina che disegna una principessa o che fa il “gioco della confessione” con i suoi famigliari, dove appare anche il suo incombente papà ed Engels, l’amico e sostenitore di un’intera vita.
Questa regista, del resto, mi aveva già profondamente colpito per la sua l’originalità, il suo respiro ampio, lontano anni luce dalla filmografia italiana più convenzionale, la sua raffinata conoscenza musicale e il suo coraggio nello scegliere di ritrarre personaggi femminili con le loro luci e con le loro immancabili ombre come nel suo lungometraggio precedente, Nico, 1988, dove una magnetica e lancinante Trine Dyrholm incarnò divinamente tutta la carica autodistruttiva della cantautrice tedesca Christa Päfggen, detta Nico.
Suggestivi i costumi di Massimo Cantini Parrini e puntualmente allusiva la scenografia di Alessandro Vannucci e Igor Gabriel che immaginano un Ottocento inglese vivo ed autentico, evitando così tutti i più vieti conformismi che di solito infestano la maggioranza dei film in costume. Espressiva e nitida allo stesso tempo è la fotografia di Crystel Fournier.
Gli interpreti sono tutti bravi e calzanti. Romola Garai dà vita ad un’Eleanor delicata, tenera ed elegantissima nel vestire e nell’atteggiamento eccetto in quel liberatorio e dionisiaco ballo solitario che mi ha richiamato alla mente la tragica figura di Janis Joplin. Patrick Kennedy dona al suo Aveling tutta l’ambiguità del personaggio, capace di sedurre e di mentire, di affascinare e di contrarre debiti infiniti per le sue spese pazze. John Gordon Sinclair fa un Friedrich Engels spiritoso e simpatico. Karina Fernandez è Olive Schreiner, l’amica sincera ed affettuosa.
Mi piace concludere questa recensione raccontando un aneddoto che rivela quanta difficoltà ci sia stata anche nelle menti più brillanti di quel periodo storico a riconoscere l’importanza dell’emancipazione femminile nella rivoluzione (socialista o anarchica all’epoca erano quasi sinonimi).
Parigi, 1896: conferenza di Pëtr Alekseevič Kropotkin. Si discuteva, appunto, del ruolo dell’emancipazione femminile nella rivoluzione.
Kropotkin, 54 anni, sosteneva che l’emancipazione della donna si sarebbe risolta da sé con l’avvento di una società nuova.
Emma Goldman, 27 anni, ribatteva che era invece una questione centrale da affrontare subito, anche nella società capitalistica.
Kropotkin insisteva e rimaneva nella sua posizione.
Emma Goldman, ad un certo punto, gli rispose così:«Quando io avrò la tua età, forse, l’emancipazione femminile e la schiavitù sessuale della donna, non avrà questa rilevanza, ma ora ce l’ha; ce l’ha per me e per milioni di donne».
Kropotkin rifletté un po' e poi disse:«Non ci avevo pensato. Hai ragione».
Emma Goldman scoppiò in una gran risata. E, alla fine della conferenza, lo abbracciò con calore.
Maria Antonietta Nardone © Tutti i diritti riservati