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Maria Antonietta Nardone

Europa, matrigna crudele


(Foto della locandina presa dal web)


 

GREEN BORDER 

di Agnieszka Holland

con Jalal Altawil, Behi Djanati-Atai, Maja Ostaszewska, Tomasz Włosok, Mohamad Al Rashi Dalia Naous, Maciei Stuhr, Taim Aijan, Talia Aijam

 

Green Border è un film durissimo e sconvolgente eppure, allo stesso tempo, molto bello. Un film che non fa sconti a nessuno e che smaschera la cattiva, cattivissima coscienza di un’Unione Europea che, vista da questo confine tra la Bielorussia e la Polonia, fa orrore e ribrezzo.

   Il film si apre con una veduta dall’alto delle cime verdi di alti alberi di una folta foresta. È l’unica scena a colori di un film che è totalmente in bianco e nero. La storia è divisa in quattro capitoli (La famiglia, La guardia, Gli attivisti, Julia) più l’epilogo e racconta le vicende di una famiglia siriana (Bashir, Amina, Nur, Ghalia, il più piccolo che prende ancora il latte dal seno della mamma, il nonno) che cerca rifugio solo temporaneamente in Polonia, essendo la sua meta la Svezia, dove ha intenzione di ricongiungersi con il fratello di Bashir; poi di Leila, una donna afghana, di Jannik, una guardia di frontiera polacca, che sta per diventare padre di una bambina, e di un variegato gruppo di attivisti volontari che cercano di portare un aiuto concreto ai rifugiati e/o ai richiedenti asilo intrappolati in questa sorta di bosco “stregato”.  

   Dal 2021 la Bielorussia di Lukashenko usa i rifugiati, attirati con una fallace propaganda verso il confine con la Polonia, per fare pressione e minare l’integrità della Comunità Europea. La Polonia del conservatore Morawiecki ha represso e respinto questa migrazione con metodi brutali e nella più totale violazione dei diritti umani.

   Quello che accade in questa foresta piena di insidie naturali (freddo, pioggia, paludi) e umane (le guardie di frontiera bielorusse e polacche che fanno a gara a chi è più feroce, predatorio e sadico) bisogna solo vederlo e sentirlo. Le angherie, i soprusi e gli abusi illimitati, le tante brutalità compiuti dalle guardie di frontiera di entrambe le parti, che si rimpallano, letteralmente, i profughi, quasi fossero palle da ping pong, con un filo spinato a fungere da rete, agghiacciano e trafiggono l’animo.

Non svelerò quali saranno i sommersi (e in che modo) e quali i salvati (e in che condizioni) in questa lotta per il passaggio verso l’agognata salvezza.

   In questo labirinto pieno di violenza e di speranza sarà difficile, per lo spettatore, dimenticare i volti, gli sguardi, le mani e le piante dei piedi di chi chiede un rifugio scappando dall’Isis (la famiglia siriana) o dai talebani (Leila) così come sarà difficile dimenticare la crudeltà e l’assoluta mancanza di empatia della polizia di frontiera di entrambi i paesi coinvolti.

Del diritto, dello stato di diritto e del diritto internazionale si fa, semplicemente, carta straccia, così come dei passaporti e dei proprietari dei passaporti. Se sotto il profilo istituzionale i respingimenti sono tanto sistematici quanto brutali (basti vedere la formazione dei poliziotti di frontiera), nella società polacca, tuttavia, singoli cittadini (un avvocato, una psicologa, un paziente della psicologa, giovani anarchici ecc.) si adoperano per un soccorso ed un’accoglienza che sappiano ancora riconoscere diritto, humanitas e fratellanza. E questo mi ha ricordato il pensiero di Italo Calvino nella sua raccolta di racconti Le città invisibili: «L'inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n'è uno, è quello che è già qui, l'inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l'inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all'inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio».

Qualche crepa nella volontà di crudele respingimento si vedrà anche in Jannik, la guardia di frontiera polacca, in una poliziotta di un remoto posto di polizia vicino al confine, e, anche se sono gocce in un mare di indifferenza e di pavido conformismo, c’è sempre la speranza che «se non c’è strada nel cuore degli altri prima o poi si traccerà» come canta Fossati in Mio fratello che guardi il mondo.

  L’affondo finale della regista sul differente approccio verso i rifugiati ucraini allo scoppio della guerra nel febbraio 2022, in seguito all’invasione della Russia, rivela non solo l’ipocrisia massima su come viene considerato, di volta in volta, lo straniero, l’altro, il diverso, ma rivela soprattutto il razzismo che permea questo differente approccio: un conto è essere bianchi e di religione cristiano ortodossa, un altro conto è provenire dal Medio Oriente, dall’Asia centrale o dal Nord Africa ed essere di religione mussulmana.

La regia di Agnieszka Holland mantiene una certa distanza dalle vicende rappresentate, nonostante la loro drammaticità, ed evita qualsiasi ricatto sentimentalistico o pietistico anche grazie ad una sceneggiatura asciutta e rigorosa che porta la firma della stessa Holland assieme a Maciej Pisuk e a Gabriela Łazarkiewicz-Sieczko. La fotografia di Tomasz Naumiuk è elegante ed incisiva ad un tempo. Bravissimi ed intensi tutti gli interpreti da Jalal Altawil a Behi Djanati-Atai, da Maja Ostaszewska, già vista e ammirata in Katyń di Wajda, a Tomasz Włosok, da Mohamad Al Rashi a Dalia Naous, da Maciei Stuhr a Taim Aijan.

E, se dalla visione di questo film emerge un’Unione Europea che si comporta come una matrigna crudele, la fiducia di Agnieszka Holland nell’allargare «ciò che inferno non è», grazie ad una sofferta e coraggiosa presa di coscienza dei singoli individui, è autentica ed indubbia.




Maria Antonietta Nardone © Tutti i diritti riservati

 

 

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