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Maria Antonietta Nardone

Godard, l’ultimo dei titani


(Foto presa dal web)


[Dopo la rievocazione personale, che mi è piaciuto fare soprattutto per l’incidenza che il cinema aveva nella società del tempo, questa è la mia lettura storico-critica del suo percorso artistico]


Jean-Luc Godard (1930-2022) inizia la sua avventura con il cinema come critico cinematografico, scrivendo prima su Gazette du Cinéma e poi sui Cahiers du cinéma, la rivista fondata da André Bazin nel 1951, con lo pseudonimo di Hans Lucas.

Più tardi dirà:«Ai Cahiers ci consideravamo tutti come futuri registi. Frequentare i cine-club e la Cineteca significava già pensare in termini di cinema e pensare al cinema. Scrivere significava già fare del cinema: tra lo scrivere e il girare c'è solo una differenza quantitativa e non qualitativa».

E sarà finalmente regista di alcuni corti, tra cui Opération béton (1954) Un femme coquette (1955), liberamente tratto dal racconto Le Signe di Maupassant.

È nel 1960 con À bout de souffle, che, girato in esterno e non negli studi, adotta un montaggio spezzato, sceglie musiche dissonanti, e, in taluni momenti, fa guardare i personaggi direttamente in macchina, rompendo così una visione ancora ottocentesca del personaggio, ma anche del racconto, che non segue più una cronologia lineare bensì si affida agli slanci e agli stati d’animo dei personaggi, Michel (Jean-Paul Belmondo) e Patricia (Jean Seberg); licenzia così il suo primo lungometraggio. Ed è anche grazie a questo film (l’anno prima, nel 1959 uscirono I 400 colpi di Truffaut, Hiroshima mon amour di Resnais e Les Cousins di Chabrol) che ha storicamente vita la Nouvelle Vague, ossia un nuovo modo di concepire e di fare cinema, che si contrappone al cinema precedente dei padri, che vuole filmare liberamente quello che desidera, e che annovererà tra i suoi rappresentanti François Truffaut, Jacques Rivette, Claude Chabrol, Èric Rohmer, con compagni di strada Alain Resnais, Luois Malle e Agnès Varda (il suo antesignano La pointe courte, ad esempio, è del 1955 mentre l’indimenticabile Cleo de 5 á 7 è del 1962).

Godard, però, non si “accontenta” solo di fare film. Ha l’esigenza profonda di pensare che cosa sia il cinema e quale sia la sua incidenza nella società (così come si interrogava nei Cahiers anche Bazin).

E nel fare i film, poi, non si accontenta di essere solo il regista; vuole esserne anche lo sceneggiatore e – importantissimo – il montatore.

Con la sua affermazione che «il montaggio è la vera regia, il solo modo per congiungere passato e futuro mostrandoli insieme», Godard non fa che dotare il regista cinematografico della stessa capacità demiurgica e creatrice di cui gode il romanziere. Naturalmente, un romanziere come Proust o Joyce, ossia di coloro che hanno completamente ribaltato e rifondato i canoni del romanzo all’inizio del Novecento. Ne fa, anche e praticamente, un autore a tutti gli effetti.

In questo Godard è stato grandissimo poiché la sua intuizione sul montaggio e il suo pensiero su che cosa sia il cinema (un’interrogazione mai dismessa nell’intera sua esistenza che lo porterà ad instancabili sperimentazioni) hanno allargato il campo di lavoro di un regista e, per la sua sempre rinnovata formulazione di un’estetica del cinema, hanno posto il regista alla stessa altezza artistica di un romanziere che oltre ad una poetica abbia anche una estetica ed una coscienza estetica del mezzo.

Anche l’uso di brani musicali è ripensato rispetto alle consuetudini del passato: mai commento, mai sottolineatura, più o meno enfatica, bensì racconto a sé oppure, non disdegnando proprio una delle pratiche musicali, in contrappunto con le immagini che scorrono. Tante, davvero tante, troppe le scelte musicali che mi hanno colpito e, contemporaneamente, portato in altri mondi. Una su tutte: il Concerto per violoncello in Si minore op. 104 di Dvořák in Je vous salue, Marie. E basterebbe anche solo la scelta di questa musica – una musica che sembra quasi scaturire dalle immagini stesse – per assolverlo da qualsiasi accusa di blasfemia che si beccò, se non erro, perfino dal papa dell’epoca, Giovanni Paolo II (al secolo Carol Wojtyla). C’è più spiritualità e più rispetto per il mistero dell’amore e per il mistero tout court dell’esistenza umana, in questo film, che in tanto operato dei cosiddetti credenti, che siano essi ministri della fede o semplici devoti.

Godard, insomma, reinventa struttura e sintassi del film così com’era conosciuto fino ad allora, dotando così il linguaggio del cinema di una maggiore complessità, libertà e profondità.

E Godard è fondamentale nella storia del cinema perché, così come un romanziere non può prescindere dall’avvento di Proust e Joyce in letteratura, così un regista che voglia fare i propri film non può prescindere dalla rottura innovativa portata dalla sua filmografia in quanto un artista non può non essere consapevole dei percorsi artistici che l’hanno preceduto. Ecco perché Godard risulta fondamentale – nel senso etimologico di costituire il fondamento, la base di qualche cosa – nella storia del cinema.

Nel corso del suo lunghissimo percorso artistico si è preso dei periodi di silenzio – perché un artista si mette all’opera solo quando ha qualcosa da dire; e da dire con urgenza. Diversamente, quando si produce anche senza spinta creatrice, si è dei buoni mestieranti, dei bravi artigiani, ma non si è artisti. E artista Godard lo è stato in sommo grado anche quando si è affidato a svisate saggistiche soprattutto nell’ultimo tratto della sua filmografia.

E tanti sono i registi che gli sono debitori non solo per la sua lezione di cinema (europei e non, e tra questi anche i registi della New Hollywood), ma anche, e soprattutto, per la decisione stessa di fare cinema. Un nome su tutti: Chantal Akerman che dichiarò di aver deciso di fare cinema, da ragazzina, dopo aver visto un film di Godard. E forse è proprio lei, con i suoi film rigorosi e fortemente sperimentali, a poter essere considerata la sua erede artistica più autentica. Basti pensare a come anche Akerman facesse «entrare qualsiasi cosa in un film» ad esempio; o l’incuranza che avevano entrambi per qualsiasi consenso del pubblico o della critica. E basta guardare i suoi Saute ma ville (1968) e Jeanne Dielman, 23, quai du commerce, 1080 Bruxelles (1975) per verificare quanto sostengo.

E come non ricordare poi lo struggente omaggio che Bertolucci gli tributa nel suo The dreamers I sognatori (2003) nella scena dei tre giovani che corrono, sfrontati e liberi, per le grandi sale del Louvre, rincorsi dai guardiani, cronometrando il tempo impiegato della loro bravata, citando apertamente il suo Bande á part.

In collisione con il concetto stesso di industria cinematografica e con gli stessi produttori in carne ed ossa – e penso con rabbia a come sia stato falcidiato dai tagli del produttore Carlo Ponti l’edizione non francese de Il Disprezzo con Michel Piccoli e Brigitte Bardot per comprendere appieno tutta la sua diffidenza e il suo disprezzo per la categoria.

Regista e teorico come Dziga Vertov, a cui darà il nome del collettivo in cui si riunirono più cineasti (Gruppo Dziga Vertov) in opposizione alla figura gerarchica dell’autore, con cui firmerà diversi film (Pradva, Vent de l’est, Lotta in Italia), negli anni che vanno dal 1969 al 1971 e dove viene rappresentata soprattutto la crisi dell’intellettuale e degli intellettuali in quel preciso momento storico.

Ritorna alla regia individuale e, per tutti gli anni Settanta e Ottanta, sempre più incurante del consenso del pubblico, si allontana sempre più convintamente da ogni linguaggio narrativo superficiale o furbescamente spettacolare.

Polemista irriducibile, ha sempre espresso il suo pensiero su altri registi, come ad esempio su alcune scene di Full Metal Jacket di Kubrick o sui sogni di Lynch a cui egli dichiarò di preferire i sogni di Edgar Allan Poe; un pensiero non necessariamente e non sempre condivisibile. Le sue polemiche, o le sue osservazioni, come sosteneva lui, tuttavia, non erano mai fini a se stesse o sterili in quanto costringevano gli interlocutori ad una riflessione più approfondita ed ardita, sia che si condividesse il suo pensiero, sia che si divergesse da esso.

Del suo carattere scorbutico o scostante, francamente, non mi è mai importato nulla. E non perché io sia una devota o una fan acritica. Non mi è mai importato nulla perché, come scriveva Elsa Morante:«Un poeta può anche essere uno malamente, può anche puzzare. Questi sono e saranno sempre fatti suoi (e di chi gli sta accanto, aggiungerei io)». Quello che ci interessa è solo ed esclusivamente la sua opera.

E, come dirà un’altra scrittrice, Marguerite Duras, in un faccia a faccia avuto con lui nel 1987 e poi trasmesso in televisione, «i tuoi film sono bellissimi». I suoi film, come il succitato À bout de souffle (uscito in Italia con il titolo Fino all’ultimo respiro), Une femme est une femme (il montaggio dello scambio di insulti quasi fosse un film di Buster Keaton lascia senza fiato tanto è innovativo ed estroso), Vivre sa vie (la purezza di sguardo con cui imprime in pellicola Parigi fanno della capitale francese uno dei personaggi più enigmatici ed affascinanti del film), Le Mépris (Il Disprezzo), Band á part, Masculin féminin («un autentico film-saggio che ha un’attitudine non pedagogica bensì interrogativa» come scrisse Italo Calvino), sono belli, bellissimi.

Così come, per me, sono belli i film degli anni Ottanta/Novanta quali Passion, Prénom Carmen e il già citato, coraggiosissimo Je vous salue, Marie. Ed io ho amato molto anche Allemagne 90 neuf zero, un film del 1991, dove in sei capitoli (a colori) intervallati da immagini in bianco e nero prese dai cinegiornali d’epoca oppure dai film di Murnau, Fritz Lang e diversi altri registi, rievoca la storia della Germania dell’ultimo secolo.

Histoire(s) du cinéma è la sua monumentale riflessione sul cinema, il suo ruolo, la sua incidenza – o non incidenza – nella Storia, che, comunque, secondo Godard, non è ancora stata raccontata mentre invece «il confronto con la Storia è un’altra delle prove necessarie che la presenza nel mondo richiede agli artisti» (Elsa Morante); opera che è costituita da otto capitoli in cui convergono cinema, pittura, letteratura e scienza accostate ed integrate in una maniera che possa provocare la luce di un pensiero non ancora formulato.

Fino agli ultimi, veramente estremi Adieu au langage e Le livre d’images dove con uno stile totalmente antinarrativo (eppure ai miei occhi fascinosissimo) il regista ritorna a riflettere sulla storia e le storie del cinema e sulla loro inadeguatezza a raccontare e a riconoscere in tutta la loro orribilità gli eccidi e le atrocità del Ventesimo e del Ventunesimo secolo, tra cui, ad esempio, la Shoah.

È chiaro che con una filmografia di così lungo corso e di così vasta portata (tra documentari, cortometraggi, mediometraggi, lungometraggi, episodi in film collettivi, si contano più di un centinaio di opere) non tutto possa essere sempre riuscito, ma la tenace, ultrasessantennale generosità della sua indomita ricerca è indubbia e, a pensarci con serena oggettività, per me, anche sommamente toccante. Il suo corpo a corpo con il cinema mi richiama lo sforzo di un titano; dell’ultimo dei titani. Mi riferisco alla tradizione mitologica dei Titani trasmessa da Diodoro siculo; a quei Titani che lasciano in eredità agli uomini un dono prezioso (Iperione, il pilastro d’Oriente, è il titano della vigilanza e dell’osservanza, ad esempio) conquistandosi così una gloria imperitura.

È stato un’artista che ha avuto un’intuizione del mondo e del cinema e che, successivamente, con logica e con rigore, ha perseguito sulla strada della sua intuizione originaria fino ai suoi margini più estremi. Perché per Godard, come per ogni artista autentico, la sua arte, ossia il cinema, è stata una questione di vita o di morte. Non si è artisti per farsi dire quanto si è bravi, ossia per vanità. Lo si è perché si lotta col drago dell’irrealtà (per irrealtà intendo menzogna, falsificazione, conformismo, disonestà intellettuale ecc.). Trovatemi un regista contemporaneo (vivente) che viva il cinema con questo coinvolgimento totale ed assoluto che ha avuto Godard – e con i suoi esiti artistici e la sua influenza sulle generazioni successive di registi (e di scrittori). Trovatemelo!

La vita è già quello che è come ha scritto un grande filosofo come Schopenhauer. Siamo tutti sotto il giogo della volontà di vivere, della mera volontà biologica di vivere. Riconoscere ed apprezzare la bellezza e chi la crea permette di sottrarsi per un po’ di tempo a questo giogo e di sperimentare così la gioia – la gioia, detto da Schopenhauer!

Chi non sa riconoscere ed apprezzare la bellezza e chi la crea resta schiacciato da questa pura volontà meccanica di vivere. Non si può quindi che essere grati fino al midollo e dal più profondo del proprio animo verso chi ha creato e ci ha donato tanta bellezza – sto parlando di quella bellezza mai disgiunta dal «doloroso vero» – con sì generosa tenacia, decidendo infine di «abbandonare il banchetto della vita» perché oramai completamente svuotato di ogni forza. Un’uscita di scena degna di un greco antico.

Io gli sono grata; e lo sono con tutta me stessa.

Ancora e sempre, grazie di tutto, Jean-Luc Godard.




Maria Antonietta Nardone © Tutti i diritti riservati

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