top of page
Maria Antonietta Nardone

I nuovi sonnambuli


FRAMMENTI DI BRUXELLES

 di Elena Basile

 Sandro Teti Editore, ottobre 2024

 

 

Che belli questi racconti Frammenti di Bruxelles scritti da Elena Basile! Dieci racconti che afferrano il lettore e lo conducono alla scoperta di un universo poco conosciuto. Quantomeno, a me, poco conosciuto.

   Bruxelles diventa così il palcoscenico di più personaggi, molto diversi tra loro, che si muovono in luoghi ed ambienti comuni senza incontrarsi mai. Conosciamo Antonio, un medico siciliano eletto europarlamentare, che tra le brume e le piogge della capitale belga sogna il mare e il sole della sua isola, Lampedusa (chiarissima la libera ispirazione a Pietro Bartolo); sogna soprattutto di incidere nel corpo vivo della realtà, ma i suoi propositi vengono annullati dalle beghe di un partito che pensa più alla propria sopravvivenza che non a contribuire ad affrontare i problemi che affliggono milioni di cittadini europei. E non saranno certo le coccole di colleghe sorridenti e profumate a distoglierlo dal suo intento.

   L’incontro con il figlio Mario, un informatico che vive a Roma, fotografa un inquietante ribaltamento dei ruoli, con il padre che è ancora in assonanza con i propri sogni ed ideali di aiuto e di convivenza mentre il figlio ventottenne è già vecchio dentro e sembra rassegnato a condurre una vita lavorativa legata alla pura sussistenza economica.

   Incontriamo poi Beatrice, un’aristocratica decaduta che non rinuncia ai suoi cappelli, simbolo di uno status irrinunciabile, né al suo bisogno di partecipare al ricevimento di un’ambasciata. Seguiamo la triste vicenda di Monica, una professoressa universitaria, in La reietta, dove più maschere che uomini (il giornalista femminista, il rettore «buono e giusto», un  finto amico che nasconde in sé una violenza malamente compressa) contribuiscono al deragliamento psichico di una donna brillante.

   Ed arriviamo a Fiori nel letame (titolo che risuona dell’inconfondibile verso di Via del Campo di De André), il racconto più coinvolgente e toccante anche perché racconta l’amore profondo e totalizzante che un giovane stagista, Maurizio, sperimenta per un’ancora più giovane, bellissima ungherese di nome Klara.

   Si prosegue con il conoscere le miserie e le meschinità del direttore dell’Istituto italiano di cultura, Polidoro; questi istituti sono «cadaveri ambulanti» a cui l’autrice non risparmia una critica severa e mirata; e poi la disperazione di Marilena, la falsa coscienza e l’ipocrisia della signora Leroy, e Arianna, l’insegnante di Lettere che sperimenta la terribile e glaciale separatezza degli aristocratici dagli altri umani, impersonata dal suo compagno Jean Jacques, mentre lei è e rimane «una signora nessuno»; ci si immerge negli intrighi all’interno del partito socialista in Camminare a tentoni, dove avviene lo scontro tra due “visioni” opposte ed inconciliabili. La politica come assoggettamento agli interessi dei grandi gruppi industriali-immobiliari-finanziari, per rimanere attaccati ad una parvenza di potere da esercitare con viscido sadismo (rappresentata da Geert), e la politica come rappresentazione delle istanze delle varie fasce della popolazione, soprattutto quelle più fragili e precarie sotto il profilo sociale ed economico (rappresentata da Bertrand). La raccolta si conclude con Said e Nabil e con una nota di speranza che erompe dalla freschezza, dalla capacità di meravigliarsi e dal desiderio di libertà  che spingono questi due fratelli adolescenti provenienti da un paesino del Marocco. E stridente è il confronto tra la forza della giovinezza incarnata dai due maghrebini e la rassegnazione stanca di Mario, il figlio del dottore nel racconto che apre la raccolta.

   Si manifestano così  questi «microcosmi che vivono uno accanto all’altro senza mai mescolarsi» come scrive l’autrice. Microcosmi vuoti, superficiali, senza profondità. Dove la vita corrisponde ad etichette prive di senso e di sostanza. Dove la vita scorre gelida e cinica, e stavo per dire cattiva (come «gli occhi ottusi e crudeli» del cigno nei laghetti di Ixelles); e captivus, in latino, significa prigioniero. E questi microcosmi appaiono come prigioni recintate da sbarre tanto invisibili quanto invalicabili.

   Sono racconti di critica alle varie istituzioni brussellesi, come ad esempio il mondo artificiale ed artificioso del Parlamento Europeo, incapace di modificare, con le sue scelte, la realtà più cruda delle popolazioni europee, o alla stessa borghesia liberale, che sembra aver tradito le proprie radici illuministiche fondate sull’inalienabilità dei diritti propri di ogni essere umano, per non parlare della fine sostanziale del socialismo, pensiero politico che sembra aver reciso ogni legame con la propria origine e con la propria stessa ragion d’essere di riscatto delle classi oppresse e di riduzione delle diseguaglianze tra i cittadini sul piano sociale, economico e giuridico. Sono racconti sostenuti da un’indubbia vis civile che tuttavia non perdono nulla della loro forza squisitamente letteraria dacché i personaggi sono ritratti ed indagati in tutte le loro contraddizioni, i loro disagi, le loro chiusure e le loro profonde sofferenze. E dove l’ironia, ora più pungente ora più sorniona, non stempera la critica sociale che viene espressa, bensì l’amplifica.

    Significativa mi è parsa l’attenzione che l’autrice riserva ai cieli di Bruxelles, ai suoi colori, ai suoi mutamenti improvvisi, ai suoi fulminanti arcobaleni come alle sue plumbee oscurità. E questa sensibilità della luce sui volti, sui mobili, sugli oggetti o sui marciapiedi, sui palazzi e sui prati  denota non solo una sensibilità da pittore di chi scrive ma anche, e forse soprattutto, rimarca una distanza che i cieli e la luce conservano e mantengono dagli esseri umani e dai loro affanni; una distanza che, connettendosi ad un significato più profondo e spiritualmente incolmabile, non è recuperabile né, tantomeno, comprabile. Così come non manca l’attenzione ai mutamenti di temperatura o alle condizioni atmosferiche (sole, pioggia, brina ecc.) che possono racchiudere in un solo giorno l’intero ciclo delle stagioni e che dona ai racconti una sensitività pulsante e  palpabile.

   La prosa di Elena Basile è incisiva e chirurgica nel ritrarre tipi e situazioni così come è capace di condensare in poche battute uno stato d’animo complesso o tutto un percorso esistenziale dei personaggi via via tracciati.

   Agghiaccia la descrizione di questi automi senza cuore e senza nerbo che sembrano aver dimenticato il primigenio sogno di vivere a Bruxelles, meta ambita e mitizzata, come privilegio e possibilità di cogliere un’occasione di crescita o di riscatto interiore e sociale.

     L’etica della responsabilità, di weberiana memoria, che è indissolubilmente connessa alla politica perché tiene sempre presenti le conseguenze del proprio agire, è del tutto assente in questo «villaggio burocratizzato» che sono diventate le istituzioni europee.

   E non si persegue nemmeno l’etica dei principi (o delle convinzioni) dacché l’unico interesse è la propria sopravvivenza partitica e la quota di potere e di influenze da esercitare e da conservare a prescindere da qualsiasi principio morale o religioso.

   Si è a Bruxelles, certo, ma questo potrebbe essere l’affresco di ogni città europea, con le sue separazioni dettate da linee invisibili eppur consistentissime, tracciate dal denaro e dal censo, e con la sua umanità infelice e rassegnata; un’umanità inerte e tramortita da «un benessere ottundente» che si muove come una massa di sonnambuli che non vede i pericoli a cui va catastroficamente incontro. La condizione attuale, difatti, mi ricorda proprio la trilogia di romanzi Die Schlafwandler (I sonnambuli) di Hermann Broch pubblicata tra il 1931 e il 1932 dove sono narrati cinquant’anni di storia tedesca  e quella tragica «degenerazione dei valori» che precedette l’ascesa del nazismo.

   Un affresco potente che induce ad ineludibili riflessioni sull’inerzia e sull’ignavia di tutta una classe dirigente europea che non solo non persegue più i propri veri interessi (ossia dei cittadini europei tutti) ma che sembra aver cancellato dalla propria mente e dal proprio cuore l’autentica spinta cristiana di amore per il prossimo per sostituirla con un egoismo stolto che, alla lunga, non può che risultare perdente.

   Tutti i personaggi, poi, escono sconfitti da questo confronto-scontro con l’ordine costituito, che sia esso il Parlamento Europeo, gli Istituti di cultura, un partito politico (con tutte le sue dinamiche fratricide), la classe sociale d’appartenenza, il dominio dell’uomo sulla donna ecc. Come scriveva Giuseppe Rensi nelle sue Lettere spirituali:«Il Leviatano (l’ordine costituito) stritola a suo capriccio gli individui lungo tutta la storia umana». E continua sostenendo che nonostante l’impossibilità di sconfiggere l’ordine costituito è doveroso opporsi all’incontrastato dominio della forza e dell’ingiustizia.

   Ebbene, questi Frammenti di Bruxelles sono un’opposizione al dominio della forza senza idee e senza ideali e di tutto quel cinismo diffuso che avvelena le nostre esistenze e che viene spacciato come il più intelligente degli atteggiamenti possibili. Ma così non è perché il cinismo è una via arida che spegne qualsiasi moto vitale. E la vita non nasce né cresce senza speranza, sogno, audacia, desiderio e amore.

 

 

 

Maria Antonietta Nardone © Tutti i diritti riservati

 

Comments


bottom of page