Il dolore passerà?
(Foto della locandina presa dal web)
L’APPUNTAMENTO
di Teona Strugar Mitevska
con Jelena Kordić Kuret, Adnan Omerović, Labina Mitevska, Ana Kostovska, Ksenija Marincovich, Izudin Bajrović, Irma Alimanović, Vedrana Božinović
Che film teso ed emotivamente coinvolgente ha diretto Teona Strugar Mitevska! Potenti e simboliche le immagini iniziali: un cantiere visto dall’alto e poi di lato; una donna bionda seduta su un masso; macerie sbriciolate che calano dall’alto a coprire ogni forma ed ogni visione.
Siamo a Sarajevo, ai giorni nostri. La donna bionda è Asja e si sta recando in un edificio enorme, una specie di centro congressi, adibito per l’occasione ad un evento collettivo di incontro tra uomini e donne. L’intera giornata di questo speed date è guidata da due singolari organizzatrici, vestite con inguardabili abiti leopardati. I partecipanti devono indossare un camicione rosa antico, una spilla con il logo dell’agenzia di appuntamenti e il badge con il proprio nome. Ci sono tanti tavolini. Vengono via via riempiti, ciascuno, da un uomo e una donna seduti uno davanti all’altra. Devono tutti rispondere “sinceramente” alle domande di una delle due moderatrici dell’agenzia. Asja è seduta davanti a Zoran, un uomo allampanato e scavato, con gli occhi azzurri continuamente coperti dal ciuffo di capelli che gli cade davanti. Asja, 45 anni, laureata in giurisprudenza, lavora in uno studio legale; Zoran, 46 anni, è un impiegato di banca. Nasce una timida sintonia tra i due. Tutto affiora gradualmente. Se l’inizio del film sembra la critica caustica di un fenomeno sociale, sostenuta da un tono lieve e puntuto, nel proseguo si addensa una palpabile aria di minaccia.
E qui, dalle diverse risposte date dai partecipanti, ha inizio il ritratto di un paese, la Bosnia-Erzegovina, e di una città, Sarajevo, i cui segni della guerra del 1992-1995, sono ancora lì, indelebili, nelle anime delle persone che hanno subito il più lungo assedio della fine del Ventesimo secolo, dall’aprile 1992 al febbraio 1996, così come nelle facciate degli edifici ancora bucherellate dai colpi di mortaio sparati dalle colline circostanti dalle forze militari e paramilitari serbe.
La regista è capace di evocare tutta la paura, l’angoscia, la fame, le ferite e le perdite provocate da quel lunghissimo assedio senza far vedere nessuna immagine di repertorio. La sua maestria è anche nell’essere riuscita a mostrare, nella scena dell’improvvisato “processo”, come tutte le ragioni o le pseudo-ragioni di quel conflitto possano rinascere in un attimo e diventare irrimediabilmente esplosive. Quindi, mostra come la conflittualità sia solo cenere, che sembra spenta, ma che in realtà spenta non è. E tutto questo in un centro congressi dove si sta svolgendo uno speed date, nelle sue sale, nel suo ristorante, nei suoi bagni, nelle sue scale, nei suoi corridoi. Insomma in un luogo chiuso e circoscritto, come in una prigione. Come prigione a cielo aperto fu Sarajevo durante il suo assedio. Come prigione è il trauma che stringe Asja da trent’anni.
Grazie alla forza drammaturgica della sceneggiatura, scritta magistralmente da Elma Tataragić assieme alla stessa Mitevska, grazie alla mobilità della macchina da presa, che incalza e segue la protagonista alla maniera dei fratelli Dardenne, concentrandosi sulla nuca, sulle spalle e sul volto di Asja, e grazie alla bellissima naturalezza espressa da tutti gli attori, professionisti e non, emerge, fino a prorompere in tutta la sua potenza, la micidialità del trauma subito dai civili. Il disturbo post traumatico da stress non ha colpito solo chi ha combattuto in eserciti più o meno regolari, ma ha inciso o devastato anche lo spirito e la vita dei civili. E, nel film, la dolorosità del trauma irrompe con rabbia e violenza in Asja, con tormenti e volontà autodistruttive in Zoran.
Come comportarsi quando si incontra il cecchino che ti ha quasi ucciso, gettandoti in coma per più giorni? E, soprattutto, chi è, oggi, quel cecchino? Chi era all’epoca? Quanti anni aveva? Perché si è trovato a sparare sugli abitanti della sua stessa città? E, soprattutto, la sua disperazione, è autentica oppure è tutta una recita discolpatoria ed auto-assolutoria?
Memorabile la scena della danza ad una festa di minorenni dove Asja, finalmente sciolta dal mistero del suo feritore, si lancia, quasi immemore di tutto, in un ballo libero e liberatorio, come a riappropriarsi di quei suoi sedici anni interrotti dalla violenza subita nel corpo e nell’anima, e a riassaporarne tutta l’inimbrigliabile ed instancabile energia, sia pure per poco.
Tutti gli attori sono bravi e straordinariamente in parte. E straordinaria è l’interpretazione di Jelena Kordić Kuret nel dare corpo, voce e anima alla sua Asja. Nel volto di questa attrice, nei suoi incredibili occhi sormontati da una frangetta bionda, è passato tutto il dolore, lo sconcerto, la rabbia, il risentimento, un evanescente desiderio di vendetta fino alla finale riconciliazione. Così come efficacissima è l’interpretazione di Adnan Omerović nell’incarnare il tormentato Zoran, letteralmente ischeletrito dai sensi di colpa, imprigionato anch’egli in un passato che non passa.
Io credo che questo sia un film rilevante; storicamente e psicologicamente rilevante. Di Teona Strugar Mitevska avevo già ammirato Dio è donna e si chiama Petrunya e la sua capacità di raccontare in una maniera potente e secca con battute comiche ed incursioni ironiche. Ma qui la regista macedone fa un indubbio salto qualitativo nel suo percorso artistico regalandoci un film potente, profondo e maturo. E teso, secco, senza alcuna sbavatura. Un film che racconta la disperazione della vittima e la disperazione del suo aggressore: due differenti disperazioni, che, se dialogano in una maniera aperta e autentica, possono sprigionare, se non proprio la felicità del titolo internazionale del film (L’Uomo più Felice del Mondo) almeno un’accettabile pace interiore, sia pure conquistata dopo un tempo lunghissimo e con grande, grande fatica.
Se in Quo vadis, Aida? (2020) di Jasmila Žbanić, indimenticabile film sul massacro di Srebrenica, in cui recitava la stessa Jelena Kordić Kuret nella parte di Chamila, i carnefici (tra cui Radtko Mladić) non erano certo tormentati, né pentiti né tantomeno redenti anzi taluni si erano perfino appropriati degli appartamenti dei bosniaci-musulmani uccisi, in questo film, L’appuntamento, non vedi nulla di quanto accadde all’epoca, eppure la forza drammaturgica, registica ed interpretativa rievocano nella mente dello spettatore quelle corse affannate con le taniche dell’acqua o le buste della spesa, il suono degli spari o dei colpi di mortaio, il sangue lasciato sul marciapiede nella strage al mercato di Markale e quasi l’odore di quella paura, di quell’angoscia, di quella sofferenza e di quel senso di rassegnata impotenza che distruggeva quasi più dei colpi del nemico. In questo film vi può essere una finale comprensione delle ragioni e della storia personale dell’aggressore perché la vicenda di Zoran lo può permettere.
Ma all’epoca l’odio etnico e religioso fu pompato e strumentalizzato da “politici” senza scrupoli come Milošević e Karadžić, o da ideologhe indecenti come Bibljana Plavšlić, la quale dopo il massacro di civili di religione mussulmana a Bijelijna dichiarò che andava lì solo a «baciare gli eroi» e di Arkan, che aveva guidato quel massacro, disse che «era un vero serbo e che questo è il tipo di eroi di cui abbiamo bisogno». Portata a rispondere dei suoi crimini davanti al Tribunale Penale Internazionale per l’ex-Jugoslavia, fu giudicata e condannata nel 2003 a soli undici anni di reclusione perché dichiarò il proprio rimorso riguardo ai crimini contro l’umanità, di cui veniva accusata, ed ammise la propria colpevolezza per il reato di omicidio. Durante la sua reclusione in un carcere svedese sostenne che il suo rimorso e la sua ammissione di colpevolezza erano state tutta una farsa per ottenere uno sconto di pena. Uscirà dal carcere nel 2009 per buona condotta e sarà accolta a Belgrado come un’eroina.
È chiaro che con figure come queste di Bibljana Plavšlić, et similia, non sia possibile alcun dialogo, alcun confronto, alcuna “redenzione”. In questi casi, non può esserci pace senza giustizia, o, almeno, una parvenza di giustizia, come sostennero pensatori come Marx, Rensi e Sartre i quali anzi aggiunsero che non solo la riconciliazione con chi ha compiuto e rivendicato il male non sia possibile, ma perfino che ribellarsi a tale riconciliazione sia doveroso.
L’appuntamento si chiude con una panoramica fissa sulla città di Sarajevo che trascolora nell’arco di una giornata. Si vedono i tetti rossi, le verdi colline circostanti e una lingua bianca di lapidi. Chiunque sia stato a Sarajevo, come a me è capitato nella primavera di quattro anni fa, non può dimenticare quella lingua di lapidi bianche che ricopre le pendici della collina, ossia il cimitero e il memoriale Kovači, dove sono sepolti una miriade di giovani uomini di vent’anni o poco più. Chiunque sia stato a Sarajevo con un minimo di consapevolezza storica non può dimenticare il tunnel scavato nei pressi dell’aeroporto attraverso cui passavano i rifornimenti di cibo e medicinali oppure chi aveva deciso di lasciare la città così strettamente assediata. E non può dimenticare “la Rosa di Sarajevo” che venne disegnata con resina rossa attorno ai buchi provocati dalle granate: una rosa che è ricordo, cicatrice e, soprattutto, trasformazione.
È Sarajevo, difatti, che non può dimenticare, ma può trasformare i fori delle granate in qualcosa di bello e vitale come una rosa, appunto. Costruire bellezza lì dove si è portato solo distruzione. Ricostruire edifici, legami, relazioni, arte, cinema e letteratura lì dove passò una morte inopinata e schiava dei soliti guerrafondai.
E mi chiedo ancora come sia stato possibile, negli anni 1992-1996, in piena Europa, che quell’assedio infame e genocida non sia stato fermato. Un monito, anche, a quanto dolore da disturbo post traumatico da stress si va accumulando, da più di un anno a questa parte, nella popolazione ucraina falcidiata dall’esercito “regolare” russo nella più inquietante impotenza diplomatica della cosiddetta “comunità” europea.
Maria Antonietta Nardone © Tutti i diritti riservati
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