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Maria Antonietta Nardone

Il filo nascosto del Male


(Foto della locandina presa dal web)

IL MALE NON ESISTE

di Mohammad Rasoulof

con Ehsan Mirhosseini, Shaghayegh Shoorian, Kaveh Ahangar, Alireza Zareparast, Mohammad Valizadegan, Salar Khamseh, Mohammad Seddighimehr, Darya Moghbeli, Mahtab Servati, Shahi Jila, Baran Rasoulof



Il male non esiste di Mohammad Rasoulof è uno dei più potenti film che abbia visto in questi ultimi tempi. Il film è composto di quattro capitoli, indipendenti eppure legati tra loro, ciascuno con il proprio titolo: Il diavolo non esiste, Lo puoi fare, Compleanno, Baciami.

Siamo in Iran, uno stato teocratico, dove il dissenso è represso con il carcere e dove vige la pena di morte.

Heshmat è un uomo mite, che aiuta i suoi vicini a salvare un gatto dai tubi fitti di un garage in cui si è ficcato, che fa pazientemente la spesa con la moglie, a cui le tinge perfino i capelli sotto la doccia. È un uomo che accudisce con dolcezza sia la madre sia la figlia eppure è come se gli mancasse qualcosa per essere felice o almeno sereno. Il suo sguardo si fa spesso assente, vacuo. Mentre di notte si reca al lavoro in macchina fissa attonito il semaforo che da rosso si fa verde – e non parte – e poi di nuovo rosso. Lugubre anticipazione di altri pulsanti ora rossi ora verdi che si accendono e suonano. Si manifesta infine l’ordinaria quotidianità di un lavoro terribile dove è consuetudine prepararsi tranquillamente il caffè in attesa di premere un tasto letale.

Questo primo capitolo si chiude con una scena che, per durezza, non dimenticherò mai – e che qui non svelo.

Pouya è un giovane con tanti sogni in testa come quello di avere un passaporto e poi andare a vivere in un altro paese con la sua fidanzata Tahmineh. Al momento sta facendo il servizio di leva, che in Iran è obbligatorio e dura due anni. A taluni di questi giovani militari può capitare di essere esecutori di pene capitali – l’atto in questione è dare un calcio allo sgabello del condannato a morte per impiccagione. Ma Pouya non vuole farlo; non vuole assolutamente farlo. Nelle discussioni con i suoi commilitoni emergono tutte le possibili risposte ad un simile ordine da quelle più codine a quelle più temerarie. La capacità del regista di far emergere il dissidio interiore che abita (o non abita) i protagonisti delle quattro storie via via raccontate è davvero prodigiosa perché si avvale di una naturalezza e di una profondità entrambe fuori dall’ordinario.

L’oppressione data da una luce cupa e da luoghi restrittivi come può essere un carcere è quasi soffocante fino all’inattesa liberazione finale scandita, musicalmente parlando, dalla versione originale di Bella ciao, quella delle mondine sfruttate dal padrone, cantata da una magnifica Milva.

Javad è un giovane militare che nei tre giorni di licenza ottenuti come premio va dalla sua fidanzata, Nana, che vive con la famiglia in campagna, per festeggiare il suo compleanno. E per chiederle di sposarlo. Prima di salire sulla collina dove abitano, si cambia e nasconde in un cespuglio la sua divisa. Da fuori, nota che ci sono molte sedie portate da una camionetta. Pensa che sia per la festa di compleanno della sua bella Nana. Ma le cose non stanno così. Un uomo molto caro alla famiglia, caro come un figlio, è stato appena giustiziato dalle autorità del paese. C’è da fargli il funerale. Javad non sapeva nulla dell’esistenza di quest’uomo. Chi era? Perché è stato giustiziato? È quasi geloso. La scoperta dell’identità di quest’uomo sarà lacerante per il futuro dei due promessi sposi che si erano intanto persi in una freschissima felicità bucolica. In un dialogo rivelatorio tra Javad e Shirin, la madre della fidanzata, costei dice:«Ci sono quelli che obbediscono e quelli che dicono “no”. Il tuo potere è nel dire “no”».

Infine, nel quarto ed ultimo capitolo, vediamo Bahram assieme alla moglie Zaman attendere all’aeroporto l’arrivo della nipote ventenne Darya e portarla tra le montagne rocciose e polverose, in una fattoria sperduta dove alleva api e spacca la legna. Deve comunicare alla giovane un segreto, ma attende il momento adatto per farlo, mentre Zaman esprime tutti i suoi dubbi sulla bontà di questa rivelazione. Bahram è un medico, ma non esercita in nessun ospedale e non ha uno studio privato. Non ha nemmeno la patente di guida. Perché? Lo scopriremo; sì, lo scopriremo.

La forza indiscussa di questo film è nel mostrare come si viva sotto un regime autoritario e confessionale, quanta libertà individuale ci possa essere o non essere, quanto costi opporsi o non opporsi. E come venga stravolto il concetto stesso di responsabilità; di responsabilità individuale, intendo. Tuttavia, c’è sempre una scelta che si può fare, sembra suggerirci il regista iraniano. Ed è alla responsabilità di questa scelta che il singolo individuo non può sfuggire.

Mohammad Rasoulof, che firma anche la sceneggiatura di questo suo settimo lungometraggio, ha il coraggio di mettere il dito nella piaga del suo paese: la repressione violenta di ogni dissenso è repressione e violenza su tutta la popolazione maschile che vive di tormenti e di sensi di colpa, se obbedisce agli ordini; di una vita deprivata della propria identità, dove si è costretti a nascondersi e a non avere nemmeno una minima assistenza sanitaria quando si sta male, perfino molto male, quando non si obbedisce agli ordini e/o si scappa. Comunque, che ci si opponga o non ci si opponga, la vita degli uomini raccontati in questo film, è rovinata.

Siamo davanti ad una popolazione maschile costretta a fare due anni di leva, durante i quali può capitare di essere esecutore di pene capitali, a cui non viene permesso alcun dilemma etico sul dare la morte ad un altro uomo, e su cui si abbatte una violenza perniciosa che riverbera su tutti e tutte, figlie, fidanzate, mogli, sorelle, madri, allieve.

Tutti questi giovani (o ex giovani come nell’ultimo capitolo) sono uniti da questo filo nero della leva obbligatoria o di un lavoro nefasto.

E questo filo nero (il male del titolo) è nelle vie trafficate di Teheran, nelle celle e nelle sbarre di un carcere di massima sicurezza, ma si è insinuato anche tra i boschi, i torrenti e i fiori della campagna o nei deserti rocciosi e polverosi dove per chilometri e chilometri non si incontra anima viva – al massimo una volpe curiosa o in cerca di cibo.

I personaggi femminili, in questo film, hanno una forza ed una saggezza che sorprende solo chi non conosce la forza, la saggezza e la grazia delle donne iraniane. E sono bellissimi – intendo i personaggi, con tutte le loro sfaccettature. Ed una di loro, Zaman, si permette anche una battuta folgorante sul velo che le donne devono sempre indossare nelle occasioni pubbliche. Alla nipote arrivata dalla Germania, a cui chiede come va con il velo e che risponde:«No, va bene, è divertente», Zaman, da adulta consapevole, replica:«Portare sempre il velo non è affatto divertente».

Il regista offre l’occasione di una profonda e sentitissima riflessione anche sulla pena di morte, sul dare la morte ad un essere umano eseguendo un ordine o una sentenza (ossia per la legge di quel luogo e di quel tempo). E lo fa con una forza straordinaria, tenendosi lontano da ogni retorica o spettacolarizzazione, semplicemente mostrando quello che accade nell’animo dei vari protagonisti e nelle persone che li attorniano.

Attraverso questi temi e riflessioni, Rasoulof mostra anche la forza dei legami affettivi nel suo paese, siano essi famigliari o di coppia, e l’incidenza indiscussa della cultura – il coraggio di opporsi, il coraggio di dire “no” passa anche dallo scolpire una testa maschile come fa Shirin.

E mi è piaciuto tutto di questo film: la fotografia di Ashkan Ashkani, le musiche di Amir Molookpour e la recitazione molto naturale degli attori, con quei loro volti intensissimi e sofferti: da Ehsan Mirhosseini (Heshmat) a Kaveh Ahangar (Pouya), da Mohammad Valizadegan (Javad) a Mahtab Servati (Nana), da Mohammad Seddighimehr (Bahram) a Shahi Jila (Zaman) e Baran Rasoulof (Darya).

Il film, che ha vinto l’Orso d’oro al Festival di Berlino 2020, mi pare però poco promosso ed ancora meno distribuito. Anche questa è una scelta!




Maria Antonietta Nardone © Tutti i diritti riservati




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