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Maria Antonietta Nardone

Il legno storto


(Foto della locandina presa dal web)


GLI SPIRITI DELL’ISOLA

di Martin McDonagh

con Brendan Gleeson, Colin Farrell, Barry Keoghan, Kerry Condon, Sheila Flitton


Accidenti che film originale ed essenziale ha girato Martin McDonagh! Questo suo The Banshees of Inisherin (titolo originale) artiglia lo spettatore dalla prima all’ultima inquadratura senza mollarlo nemmeno per un attimo.

Siamo nel 1923 e la guerra civile in Irlanda arriva in quest’isola immaginaria, Inisherin, solo come lontano scoppiettìo di arma da fuoco. Colm e Pràdraic, amici da sempre, si concedono di solito una pinta di Guinness alle due pomeriggio nel pub del villaggio. Colm, deciso a non sprecare più il suo tempo in un chiacchiericcio futile ed inconcludente, decide che non vuole più avere come amico Pràdraic perché «non gli va più a genio e perché è noioso». Pràdraic non si arrende e vuole comprendere il motivo di questo tanto improvviso quanto (per lui) inspiegabile allontanamento dell’amico. In questa vicenda vengono coinvolti i pochi abitanti di questo villaggio sperduto nell’oceano: il proprietario dell’unico pub dell’isola, il prete, Siobhàn, la sorella di Pràdraic, Dominic, lo scemo del villaggio (che a me è parso tutt’altro che “scemo”), figlio del poliziotto violento e sopraffattore.

Da qui McDonagh avvia una parabola nera e cupa capace di raccontare la natura incorreggibile degli esseri umani, la sovrana e indifferente Natura, che dispiega bellezza e solitudine, e la quieta pazienza degli animali, il cane, l’asinella, il cavallo, le mucche, le capre, che sembrano conoscere la solidarietà, conservando la loro innocenza, più dei loro padroni umani.

Racconta come l’ostinazione ottusa, sia del velleitario violinista e compositore di canzoni Colm, sia del gentile e ingenuo Pràdraic, porti ad un conflitto crudo e spietato, dove pur di mantenere fede alla propria decisione e di colpire l’ex amico, si arriva ad essere autolesionistici per non dire autodistruttivi tout court, da una parte. Dall’altra, pur di riconquistare un’amicizia perduta, con la stessa ottusa ostinazione, si arrivi a perdere la propria gentilezza d’animo e ad essere irrimediabilmente contagiati dalla cattiveria e dall’assenza di empatia davanti al dolore altrui. O come dice Siobhàn :«Dal rancore, dalle ripicche, dalle vendette, dal chiacchiericcio, dall’impulso irrefrenabile di giudicare gli altri».

E sarà proprio Siobhàn a rappresentare l’unica forma di salvezza, che qui non svelo. Interessantissimo il gioco di contrasto tra i costumi degli abitanti, tutti scuri e variati sui marroni, blu, neri e il cappotto prima rosso e poi giallo che indossa Siobhàn, colei che non si lascerà inghiottire dall’humus depressivo e stagnante dell’isola e degli isolani.

«Da un legno così storto come quello di cui è fatto l’uomo, non si può costruire nulla di perfettamente dritto» scriveva Kant. E intendeva che anche l’uomo più saggio e realizzato non è mai completamente esente dal contagio del male.

In questa parabola senza speranza risalta come il conflitto (che sia quello fratricida in Irlanda all’inizio del Ventesimo secolo o qualsiasi altro conflitto sulla terra) nasca da un’ostinazione ottusa che nel suo imperterrito perpetuarsi porta ferite nel corpo e nell’anima, morte e distruzione. È l’ottusità, è questa chiusura ai sentimenti, alla ragione ed anche al buon senso, che porta dolore e morte.

Il paesaggio in cui sono immerse le figure di questa storia, le praterie di verde brillante e i muretti in pietra a secco, le scogliere a picco sul mare e le colline ondulate, il mare lucente e il sole che tramonta, risplende di una sovrana ed indifferente bellezza, pur essendo per chi ci vive di una durezza estrema per la solitudine e l’isolamento a cui costringe i suoi abitanti.

Gli interni sono scuri, talvolta bagnati dalla luce calda del sole. Le figure umane sono inquadrate tra gli stipiti delle porte o dagli infissi delle finestre, come a suggerire l’incasellamento o la costrizione in una cornice esistenziale e sociale da cui è difficile – ma non impossibile – fuggire.

Con questa storia si getta uno sguardo cupo e disperato sull’umano, sulla precarietà delle sue relazioni, anche le più care e profonde, e sulla stolida insensatezza di ogni guerra o conflitto. Bravissimi tutti gli interpreti: Brendan Gleeson giganteggia con la sua recitazione tutta in sottrazione, Colin Farrell è espressivo senza essere caricaturale, Barry Keoghan è superlativo nel dare una toccante tenerezza al suo Dominic, che a me è parso il personaggio più intelligente e consapevole di tutti, Kerry Condon è superba nel tratteggiare la sua Siobhàn, ora comica, ora sensibile, ora volitiva.

Magnifica la fotografia sia degli ariosi e solitari esterni ad opera di Ben Davis – ho riconosciuto in alcuni di questi Inishmore, la più grande delle tre isole Aran – sia degli interni, case modeste, pub, chiesa, illuminati con fasci di luce laterali o trasversali. Suggestive le musiche di Carter Burwel.

Mentre lo spirito femminile dell’isola (la Banshee del titolo), incarnata dalla “strega” del villaggio, una vecchia rugosa con cappuccio e pipa neri, è un incrocio tra un Convitato di pietra e la corifea dell’antico coro greco – appare muta oppure annuncia oscuri e/o mortali presagi. Del resto la sceneggiatura, firmata dallo stesso McDonagh – che nasce drammaturgo – ha un impianto squisitamente teatrale.

Più che Beckett a me pare che il referente letterario più affine a questa parabola scura e tenebrosa sia Swift. Il Swift caustico e macabro di Una modesta proposta o quello impietoso della Favola della botte. Od anche quello de I viaggi di Gulliver – e penso all’uso famigliare e “umanizzato” degli animali.

Insomma, The Banshees of Inisherin è un film bello ed inconsueto, che ha “danzato” a lungo nella mia mente, lasciandomi riflessioni un po’ sconfortate sulla condizione umana accanto ai colori cangianti dei cieli e dei prati d’Irlanda.






Maria Antonietta Nardone © Tutti i diritti riservati







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