Il maestro di Lunana
(Foto della locandina presa dal web)
Il maestro di Lunana
LUNANA – IL VILLAGGIO ALLA FINE DEL MONDO
di Pawo Choynging Dorji
con Sherab Dorji, Keldem Lhamo, Pem Zam, Ugyen Norbu Lhendup,
Il Bhutan, il regno del Drago Tonante, è un paese a ridosso della grande catena dell’Himalaya. Un paese che ha conservato le sue tradizioni e la sua anima buddhista; un paese che regola l’entrata annuale dei viaggiatori stranieri per non essere travolto da un turismo incontrollato, mantenendosi così a distanza dal mondo globalizzato e dalla sua inevitabile omologazione culturale. Qui più che del Pil ci si preoccupa del Fil (Felicità interna lorda), in inglese Gross National Happiness. Ossia si persegue il benessere dei suoi abitanti aderendo anche a progetti che possono risultare economicamente non convenienti.
A Thimphu, la capitale, ci sono locali in cui giovani uomini si ritrovano la sera a bere una birra insieme e a parlare dei loro sogni. Come quello di Ugyen, maestro elementare, che però sogna di diventare un cantante e di emigrare all’estero, e precisamente in Australia. Sono anni che ha fatto domanda per avere il permesso di andare all’estero.
Viene invece spedito da una funzionaria del governo a Lunana, un villaggio di 56 abitanti a 4800 metri di altitudine, che si raggiunge dopo otto giorni di cammino scavallando una montagna dietro l’altra, dove dovrà insegnare ai bambini del luogo, dalla primavera fino all’inizio dell’inverno.
Inizia così il viaggio di Ugyen che, come ogni viaggio degno di questo nome, trasforma le coordinate interiori di chi lo compie fino ad arrivare ad un impensato svelamento di quello che si è autenticamente (e non di quello che si crede di essere).
Ugyen è scettico (non fa offerte ai valichi per ottenere dagli spiriti protezione per un sicuro cammino e non appone le bandierine di preghiera, i cavalli-vento), si lamenta continuamente della durezza del percorso, si infanga malamente le scarpe mentre Michen, la sua guida, riesce a mantenere incredibilmente pulite le sue calosce. È brusco con il capo del villaggio che è venuto ad accoglierlo e a dargli il benvenuto assieme all’intera popolazione del villaggio.
La scuola dove dovrà insegnare è uno stanzone polveroso, privo di ogni materiale scolastico: non ha nemmeno una lavagna. La casa dove dovrà dormire ha le finestre chiuse con la carta, l’elettricità che non c’è quasi mai mentre il letto è un sottile materasso buttato in un angolo di una stanzetta. L’intenzione del giovane maestro è di andarsene via al più presto.
Ma… ma la fresca e determinata voglia dei bambini di fare lezione, la gentilezza del capo villaggio, che ha per Ugyen un grande rispetto (perché «un insegnante tocca il futuro del suo paese»), l’incontro con Saldon, una giovane donna, che canta divinamente in cima alla collina per fare la sua offerta all’universo, che gli consiglia come raccogliere lo sterco di yak, usato come combustibile per scaldarsi, che gli racconta l’importanza karmica dello stesso yak e del legame col suo pastore, che gli confida che guardare la neve sulle montagne è come guardare la purezza d’animo delle persone, gli faranno cambiare idea.
Il regista, Pawo Choynging Dorji, racconta una storia semplice, senza fare affondi vertiginosi di natura esistenziale, sociale o religiosa, ma con una linearità indubbia, avvalendosi di attori che non sono attori (i bambini e quasi tutti gli abitanti del villaggio himalayano) che donano una spontaneità espressiva che intenerisce e commuove.
Ugyen, il cittadino Ugyen, che credeva di conoscere se stesso, che credeva di voler fare il cantante e che snobbava le tradizioni più antiche della sua terra, scopre, grazie all’incontro con i bambini e soprattutto con la piccola Pem Zam, l’irresistibile capitana della classe, di avere invece «un cuore buono», di apprezzare le tradizioni religiose ed artistiche del suo paese, di “vederne” l’importanza fondativa e sostanziale – mettete a confronto questo isolato villaggio incastonato tra la catena che vanta le montagne più alte della terra e la sala di un bar di Sidney, città che consta di oltre cinque milioni di abitanti ed è a 19 metri di altitudine, e vedrete quello che Ugyen, finalmente, comprende.
Questo film mi ha ricordato Maghi e viaggiatori, il film di Khyentse Norbu, del 2003, dove anche allora era raccontata, attraverso un viaggio, l’insofferenza di un giovane funzionario del governo per le tradizioni del proprio paese; un uomo che, intenzionato ad andare negli Stati Uniti d’America, perde la corriera per andare a Thimphu ed incontra così un monaco che gli racconta una storia (o una favola?) che lo porterà a riflettere e a cambiare idea.
Lunana. A yak in the classroom, titolo originale di un film semplice e non pretenzioso, mi ha portato una boccata d’aria pura perché mi ha fatto rivedere la mia amata, amatissima Asia. Mi ha fatto rivedere i valichi e i cumuli votivi, gli altopiani e le montagne innevate, il gho (il costume tradizionale maschile che Ugyen indossa quando è a Lunana) e la kata (la sciarpa bianca benedetta offerta a chi arriva e a chi parte). Mi ha fatto sentire l’odore dell’erba bagnata del mattino e dello sterco di yak, dell’incenso e delle conifere. Mi ha fatto sentire il freddo sulla pelle e il tè bollente in bocca, il vento ghiacciato dell’alba che taglia il volto e il loro vino di riso in gola (che poi sarebbe una specie di grappa di riso). Chiudendo gli occhi, mentre scorrevano i titoli di coda, io ero ancora in Bhutan, a percorrere questo paese che vive quasi fuori dal mondo come feci anni e anni fa, scavallando passi di oltre cinquemila metri di altezza ed entrando nei monasteri più isolati, visitando i loro inconfondibili dzong (monasteri-fortezza) ed assistendo ai loro festival nella valle del Bumthang dove si effettuavano i cham, le danze sacre; ma soprattutto scoprendo la loro sorprendente e vivificante gentilezza associata ad un grande rispetto per ogni manifestazione vivente.
Una gentilezza ed un rispetto che mi hanno fatto bene ed hanno lenito per un paio d’ore l’oppressione che sento nell’animo da quando la Russia, invadendo l’Ucraina, ha dato inizio ad una nuova guerra – ma non dimentico che da anni c’è una guerra anche in Siria ed un’altra nello Yemen nonché in altri 56 luoghi di questo irrecuperabile pianeta – dove bambini e bambine che dovrebbero andare a scuola e a giocare, sono ammazzati da bipedi adulti con un’anima che, ad essere così com'è, è già una punizione. E allora ricordo l’immagine di copertina che Elsa Morante scelse per il suo romanzo La Storia: una foto di repertorio di Robert Capa sulla guerra civile spagnola che raffigura il corpo senza vita di un ragazzo disteso prono su un cumulo di macerie – una foto saturata in rosso. Come sottotitolo impose la frase:«Uno scandalo che dura da diecimila anni». Dove lo scandalo è il potere che schiaccia ed uccide tutti gli inermi, gli umili, gli umiliati ed offesi di ogni luogo e di ogni tempo. Da diecimila anni!
Maria Antonietta Nardone © Tutti i diritti riservati
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