Il monello della steppa
(Foto della locandina presa dal web)
L’ULTIMA LUNA DI SETTEMBRE
di Amarsaikhan Baljinnyam
con Amarsaikhan Baljinnyam, Tenuun-Erdene Garamkhand, Damdin Sovd, Davaasamba Sharaw, Tserendarizav Dashnyam
L’inquadratura iniziale di questo film è folgorante. Un bastone, un cellulare attaccato in cima e… lo scoprirete. Scoprirete quanto si rischia per prendere la rete nella remota steppa mongola!
L’ultima luna di settembre è il film d’esordio dell’attore Amarsaikhan Baljinnyam che, dopo aver letto il racconto Tuntuulei di T. Bum Erdene, ha deciso di realizzarne un film, passando così anche dietro la macchina da presa – interpreta comunque il protagonista.
Tulga, un giovane che vive in città (probabilmente Ulaanbataar, la capitale, l’unica vera città della Mongolia), riceve una telefonata: Ambaa, il padre, che vive in un villaggio lontano, sta morendo. Tulga raggiunge il villaggio, nella steppa infinita, e precisamente nella provincia dello Hėntij, che ha una densità di 0,95 abitanti per km², a bordo di uno uaz (un pulmino sovietico di fabbricazione degli anni Quaranta, praticamente un van, formidabile per attraversare questi terreni senza impantanarsi o rompere qualche pezzo meccanico). Qui si prende cura degli ultimi momenti di un padre che però non è il suo padre biologico. È questa una ferita che ha segnato e condizionato tutta l’esistenza del giovane che, pur diventando direttore di un hotel a quattro stelle, è come rimasto imbrigliato e bloccato da questa ferita in un’immaturità rocciosa come il suo fisico.
È la fine dell’estate, e, prima dell’ultima luna piena di settembre, Tulga si offre di falciare il campo del padre, dietro la collina, perché bisogna mettere da parte il fieno per gli animali prima dell’arrivo della stagione invernale (che qui significa stare anche a – 40° gradi).
Compiuto il lavoro, ritornerà in città e alla sua “vera” vita. Durante la falciatura, si scontra con un bambino turbolento, pastore di pecore, di nome Tuntuulei. Dallo scontro iniziale nasce un incontro autentico, di cui beneficeranno entrambi. E sarà l’orgoglioso, ma esperto Tuntuulei a guidare Tulga nella dura esistenza nella steppa. E sarà il piccolo Tuntuulei a dimostrarsi più maturo e più comprensivo di Tulga (Tuntuulei gli porta l’acqua per non disidratarsi e gli dà diverse ‘dritte’ mentre Tulga è così “infantile” da umiliarlo davanti agli avventori di un ristorante, ad esempio).
Il regista racconta anche l’alcolismo che infesta quegli spazi sterminati; soprattutto l’alcolismo diffuso tra gli uomini, che qui sono ritratti nei due imbroglioncelli che sfruttano «l’idiozia dei turisti». Racconta con un tocco lieve quello che è un problema serissimo, una vera e propria emergenza sociale: praticamente sette uomini su dieci bevono smodatamente.
Racconta il problema dei bambini lasciati ai parenti quando si decide di andare a lavorare in città, di fatto abbandonandoli. Racconta come i mongoli siano tutti, grandissimi cavalieri. E dico tutti: uomini, bambini e bambine, donne, vecchi ecc.; insomma, tutti. E molti cavalcano a pelo, proprio come Tuntuulei. E le scene delle sue cavalcate trasmettono tutta la forza e l’irruenza della sua indomita età (dieci anni).
Racconta come la tradizione della lotta tra gli uomini (o tra bambini) sia fondamentale e sentitissima e seguitissima da tutta la comunità. E sia occasione di grande festa. Uno dei momenti più intensi è all’inizio quando i lottatori, adulti o bambini che siano, per propiziarsi la benedizione, imitano “il volo dell’aquila” girando circolarmente intorno al campo e sbattendo le braccia come se fossero ali. I lottatori vanno avanti, di incontro in incontro, ad eliminazione diretta, mentre intorno gli spettatori chiacchierano, mangiano, si salutano, bevono facendo numerosi brindisi. È un grande onore arrivare primo in queste gare di lotta. Ecco perché Tuntuulei tiene tanto a vincere questa gara.
Racconta la vita all’interno della gher (la tipica tenda circolare), la stufa al centro con la canna fumaria, l’intelaiatura in legno, il feltro e la copertura con un telo bianco. Racconta la durezza inasprita del nonno e la scarna saggezza della nonna che dice:«Abituarsi alle cose buone non è tanto complicato; quello che indubbiamente lo è, è abituarsi gli uni agli altri». È lei la vera figura materna per Tuntuulei; lei, con il suo amore, la sua cura e le sue preoccupazioni per il nipote.
Racconta la praticità di quel tipo di vita che porta alla veloce costruzione di una torretta, grazie all’abbattimento di altissimi larici, che permetterà così a tutti gli abitanti del luogo di chiamare col cellulare prendendo la rete «senza rompersi l’osso del collo». Racconta di gesti semplici, essenziali come fare il bucato in un catino o stendere l’impasto di farina col mattarello che scandiscono le giornate di chi vive a queste latitudini.
Ed io ho sentito l’odore dell’erba bagnata dalla rugiada, l’odore del fieno e quello dei cavalli; ho sentito il vento investire il mio volto con forza; ho visto (rivisto) la vastità disorientante della steppa e la lamina argentea dei laghi; ho visto le bianche gher dei nomadi punteggiare uno spazio praticamente quasi privo di esseri umani; ho visto le albe veloci e i tramonti lunghi e struggenti che irraggiano i gialli campi di grano o le sconfinate praterie color smeraldo; ho visto quel manto di stelle luminosissime e fitte, che si vede così nitidamente solo in alta quota o in zone totalmente disabitate. Ho visto il cielo blu cobalto macchiato di bianche nuvole di un paese che è anche chiamato “La Terra dal Cielo Blu”.
Il cellulare, la motocicletta, lo uaz o il camioncino sono elementi estranei a queste terre ma non contrapposti perché ormai assimilati da chi vive in villaggi sperduti o nelle gher circostanti. Servono per comunicare e per spostarsi.
Non c’è in Tulga alcuna nostalgia della vita nella steppa – che tra l’altro è durissima – bensì una timida consapevolezza che questa esperienza sia un’occasione per fermarsi, pensare, guardare in se stesso, crescere e avere relazioni autentiche come quella con il piccolo, ma già grande Tuntuulei. Nel silenzio svuotato di voci umane, nel silenzio riempito dal suono ululante del vento e battente della pioggia, del frinire o del galoppo dei cavalli, e dal ronzio degli insetti, l’uomo può ascoltare se stesso in profondità e senza infingimenti quasi sempre autoassolutori.
La grande finezza di questo film, che forse non si vede a prima vista, ma c’è (eccome se c’è!), è nella crescita indubbia che l’incontro tra Tulga e Tuntuulei smuove in entrambi: il bambino conoscerà finalmente la gioia e il calore di avere una figura paterna con cui giocare, battagliare e parlare; l’adulto, non più concentrato sulla sua condizione di figlio “illegittimo” e disamato, conoscerà la responsabilità e il sentimento profondo che abitano nei cuori dei padri, crescendo interiormente e sbrogliando infine quel nodo che lo irretiva in una sofferta immaturità. Perché, sì, l’amore, quando è vero, fa crescere. Eccome se fa crescere! E qui lo spettatore si ricorda del messaggio vocale lasciato dalla sua fidanzata sul suo cellulare, all’inizio del film, in cui lo informa di avere già un figlio, di cui non gli aveva mai parlato prima. Ora sì che è pronto a fare il padre di un bambino “biologicamente” non suo.
«Gli uomini non piangono, Tuntuulei, e tu sei quasi un uomo adesso» dice Tulga al bambino piangente in una scena toccante. Eppure gli uomini piangono; piangono come Tulga, nel camioncino, anche se quelle lacrime vengono orgogliosamente e frettolosamente nascoste ai suoi accompagnatori.
Sono tutti bravissimi gli interpreti di questa delicata opera prima, con quelle incredibili facce cotte dal sole; tutti. Ma Tenuun-Erdene Garamkhand (Tuntuulei) e Amarsaikhan Baljinnyam (Tulga) emergono per naturalezza ed intensità non comuni.
L’ultima luna di settembre è un film genuino, pulito e senza pesantezze che ci permette di vedere la vita nella steppa mongola, con tutta la sua libertà e con tutta la sua durezza – perché l’imponenza di quei paesaggi magnifici non scalfisce di un millimetro la durezza del vivere in quelle lande. Un film che descrive i sentimenti con pudore ed indaga sull’incontro arricchente tra un adulto ed un bambino e, soprattutto, sull’essere genitore (o non essere genitore, indipendentemente dal legame di sangue) con una purezza d’animo e di sguardo che commuove. E commuove profondamente. E con un’asciuttezza nella sceneggiatura, nella recitazione, nelle riprese e nel montaggio che mi ha ricordato l’indimenticabile lezione tutta in sottrazione del grande Robert Bresson. Anche se in più scene, e soprattutto in quelle finali, il rimando a Il monello di Chaplin è più che esplicito.
La figura di Tuntuulei, il bambino sveglissimo e fiero, eppure, allo stesso tempo, tenero, tenerissimo, e bisognoso d’amore come ogni bambino, resterà a lungo nella mia memoria.
Maria Antonietta Nardone © Tutti i diritti riservati
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