Interno indiano
(Foto della locandina presa dal web)
ALL WE IMAGINE AS LIGHT – AMORE A MUMBAI
di Payal Kapadiya
con Kani Kusruti, Diviya Prabha, Chhaya Kadam, Hridhu Haroon
Che bello immergersi in un universo indiano autentico e palpitante! In una Mumbai ritratta quasi sempre di notte o, al massimo, nei grigissimi pomeriggi innaffiati da imponenti piogge monsoniche, scorrono le vite di Prabha, capo-infermiera in ospedale, della sua coinquilina con cui divide l’affitto dell’appartamento in cui vive, Anu, impiegata nello stesso ospedale, e di Parvaty, la cuoca della mensa dell’ospedale, che sta per essere cacciata dal suo appartamento in cui abita da decenni perché non si riesce a trovare un documento che attesti il diritto suo e del suo defunto marito a vivere lì.
Attraverso ambienti dimessi, oggetti di uso quotidiano (pentole, stracci, tazze ecc.) e lo sguardo che si posa sulle banchine delle stazioni ferroviarie, sui cigli delle strade dove lavorano e dormono su teli decine di migliaia di persone, così come sulle luci dei grattacieli o dei negozi più lussuosi, conosciamo a poco a poco la vita lavorativa e la vita interiore di Prabha e di Anu.
Prabha, sposatasi con un matrimonio combinato, non vede e non ha più contatti con il marito che è andato a vivere e a lavorare in Germania. Un giorno, arriva a casa un pacco: è una pentola a pressione proveniente dalla Germania. Un dottore che lavora nel suo stesso ospedale, e che non sa l’hindi, le dà un taccuino, che dovrà leggere a casa, da sola. Anu si vede di nascosto da tutti con Shiz. Lei è hindu; lui è mussulmano; i suoi genitori non le permetterebbero mai di frequentarlo. Eppure il sentimento che li unisce è autentico e profondo. E i due cercano invano un momento ed un luogo per poter stare finalmente insieme. Parvaty, intanto, costretta a subire la volontà del costruttore edilizio, che la vuole fuori dall’appartamento al più presto, decide di tornare nel suo villaggio d’origine, dove almeno ha una casa presso cui vivere. Mumbai, vista da tutti come città di opportunità e di lavoro, non fa più per lei.
In questa megalopoli piena di luci, di suoni, di colori, di umanità varissima, ritratta, come scrivevo sopra, quasi sempre in notturna, spiccano i sari color turchese di Prabha e di Anu; spiccano, soprattutto, i loro sogni e i loro desideri, le loro preoccupazioni e i loro sentimenti, i loro dolori e le loro allegrie, dati anche dalla profondità dei loro sguardi, dalla compostezza dei loro gesti e del loro semplice camminare. E la solitudine sembra avvolgere tutti, donne e uomini, come un manto vischioso di cui è difficile liberarsi.
Dall’oscurità di Mumbai, le tre donne approdano al villaggio di Parvaty, in Kerala, dove la luce prende il sopravvento e scandisce le loro ore, filtrando accecante dagli alberi, rendendo il mare color argento, verde acceso i banani ecc.
Nella dimensione più solare e solidale del villaggio, che sembra riportare indietro il tempo, e sospenderlo come in una rêverie, sia Prabha, sia Anu, vivono e comprendono che cosa vogliono realmente. E questa esperienza, non priva dello scatto salvifico dei sogni e dell’immaginazione, soprattutto in Prabha, è come se liberasse entrambe dalle ansie e dalle angosce e donasse loro un’inattesa serenità e consapevolezza.
Profonda e raffinata è la sceneggiatura, firmata dalla stessa regista Payal Kapadiya, al suo primo lungometraggio di finzione, che traccia i desideri e i sentimenti di due giovani donne, ma anche dei due uomini Shiz e il dottore, in un momento storico in cui le pulsioni e le aspirazioni più vitali si scontrano con tradizioni culturali e sociali millenarie.
Originale e coraggiosa la sua regia, capace di raggiungere una naturalezza assoluta nella drammaturgia e nella recitazione delle protagoniste, a cui affianca la sapienza dello stile documentaristico, che diventa esplorazione interiore di chi via via posa lo sguardo sulle cose. In certi momenti, il suo modo di girare, mi ha ricordato quello di Satyajit Ray, così come anche l’uso di un humor lieve ma indubbio. E la capacità di Kapadiya di inquadrare scene che sono contemporanee ed antiche allo stesso tempo fanno rabbrividire di gioia chiunque conosca o ami la vita e la cultura di questo immenso e variegato subcontinente. E non a caso il film ha vinto il Gran Prix speciale della Giuria al Festival di Cannes 2024.
Intense e struggenti le interpreti, Kani Kusruti (Prabha) e Diviya Prabha (Anu), di cui mi rimarrà impresso il gesto di asciugarsi il sudore con un lembo del sari; un gesto che rimanda ad un’eleganza regale quale che sia il ceto o la casta d’appartenenza.
All we imagine as light (bellissimo titolo peraltro) è un film delicato e fresco che avvolge lo spettatore e lo tiene incantato fino alla fine.
Maria Antonietta Nardone © Tutti i diritti riservati
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