Iran oggi (Short cuts)
(Foto della locandina presa dal web)
KAFKA A TEHERAN
di Ali Asgari, Alireza Khatami
con Bahman Ark, Servin Zabetiyan, Faezeh Rad, Majid Salehi, Arghavan Shabani, Gohar Kheirandish, Farzin Mohades, Sadaf Asgari, Hossein Soleimani, Adeshir Kazemi
Kafka a Teheran è un film di Ali Asgari e Alireza Khatami il cui titolo autentico è Versetti terrestri, ispirato da un testo della poetessa Forough Farrokhazad, ed è costituito da nove episodi aperti da un prologo e chiusi da un epilogo. Siamo a Teheran, nell’evo contemporaneo. Le immagini mostrano le storie di nove personaggi che si confrontano con le istituzioni e con gli uffici pubblici per questioni di comunissima vita quotidiana. Lo spettatore vede inquadrato solo il personaggio di ogni episodio, il cui nome dà il titolo ad ogni capitolo, frontalmente; il suo interlocutore (o interlocutrice) non si vede mai – di lui, o di lei, si sente solo la voce o, al massimo, si intravede una mano. Questa modalità del botta e risposta, peraltro, è ripresa da una forma di poesia persiana che prevede un accanito dibattito tra due individui.
Seguiamo così le vicende dei protagonisti: chi deve far registrare il nome del figlio appena nato, chi deve comprare il completo per la scuola alla figlia, chi deve rinnovare la patente di guida ecc.
Attraverso il dialogo tra chi chiede e chi risponde, i registi, anche sceneggiatori del film, mostrano l’assurdità di alcune regole esercitate dall’autorità (e da chi la rappresenta) e la strenua difesa dei cittadini a conservare quei diritti inalienabili dell’individuo od anche quella dignità continuamente esposta a veri e propri abusi e/o soprusi quando non ancora vere e proprie umiliazioni. E lo fanno non dimenticandosi di inserire anche una vena ironica; amaramente o disperatamente ironica, ma pur sempre ironica.
Seguendo anche un percorso generazionale (si va dal nome da dare ad un neonato al vecchio ischeletrito e rigato da rughe profonde come crepacci dell’epilogo) i registi raccontano come l’autorità di questa repubblica islamica teocratica (sciita) abbia paura dei colori (non dei colori accesi ma proprio dei colori tout court), della poesia di Rumi quando canta il vino e l’amore, del cinema che osi raccontare il parricidio, delle donne e del corpo delle donne e di tanto altro.
E commovente è la tenacia di questi cittadini che cercano un varco di senso e di significato in tanta assurdità e in tanta ottusità entrambe così marcate da risultare spesso grottesche. Gli episodi che mi hanno portato più sofferenza sono quelli della bambina (atterrisce la sua trasformazione da bella bambina dai capelli rossi in jeans e t-shirt in un’informe essere ricoperto dallo chador e incapsulato in un vestito grigio, lungo fino ai piedi), della giovane che sostiene un colloquio di lavoro con un porco sinuoso, ma pur sempre porco, dell’anziana che cerca il suo cagnolino rapito dai poliziotti (si guardi la sua espressione desolata quando le si dice che il cane «è impuro») e del regista che cerca di far approvare la sua sceneggiatura dal Ministero della Cultura e dell’Orientamento Islamico. Indimenticabile la sua reazione, che oscilla tra la determinazione e la disperazione, nel difendere il proprio scritto e la qualità del proprio scritto da un funzionario che ha il potere di dare l’approvazione o meno a farne un film, e la cui ignoranza e la cui stoltezza farebbero disperare anche una pietra.
Si noti poi come nessuno dei personaggi osi bere quanto viene offerto dagli invisibili interlocutori, che sia un frutto d’arancia biologico o un tè che «si sta raffreddando» – immagino per il timore di essere drogati e/o avvelenati.
Grazie ad una sceneggiatura finissima nella sua essenzialità priva della pur minima sbavatura, alla camera fissa e alla scelta di usare il formato 4:3, Asgari e Khatami sono stati capaci di rendere appieno l’oppressione senza via di scampo a cui è soggetta la popolazione di Teheran (così come dell’Iran tutto) e i resistenti tentativi della stessa popolazione di sottrarvisi con toccante ostinazione e con indubbia forza dialettica. All’oppressione poi si aggiunge l’arbitrarietà di chi è posto in una qualsiasi posizione di potere che può essere quella di una preside come quella di una commessa, di un impiegato del comune come di un poliziotto, di un laido datore di lavoro o di un funzionario di un ministero ecc. moltiplicando così le difficoltà di cittadini inermi, intenti a districarsi tra regole incomprensibili e figure che potrei definire i “volenterosi carnefici del regime”. Ed agghiaccia gli animi la ramificata infiltrazione del potere in ogni aspetto della vita, pubblica e privata, del cittadino. Anzi, è come se non ci fosse separazione tra vita pubblica e vita privata ad un punto tale che gli elementi più privati della propria esistenza devono coincidere con i dettami religiosi emanati dalla Guida Suprema, che odiernamente è l’ayatollah Ali Khamenei.
Bravissimi tutti gli interpreti che hanno volti e gesti meravigliosamente capaci di esprimere tutto un registro di sentimenti che va dallo sconcerto alla ribellione, dal dolore alla contrattazione, dall’incredulità all’opposizione.
Kafka a Teheran è un film che non ha la durezza della tragedia di questa teocrazia potentemente raccontata ne Il male non esiste (2020) di Mohammad Rasoulof o l’orrore delle prostitute uccise a mani nude dal serial-killer soprannominato dalla stampa nazionale “il ragno”, e di chi lo sostenne, come si vede in Holy Spider (2022) di Ali Abbasi dove giganteggiava la coraggiosissima attrice iraniana Zahra Amir Ebrahimi (per chi non la conoscesse suggerisco di scoprire la sua storia personale di donna vittima della circolazione pubblica di un video intimo in seguito al quale ha rischiato di essere lapidata e frustrata per legge), ma, avvalendosi di una lucidità e di una incisività non prive di un tocco ironico, porta nuovi ed importanti tasselli (short cuts) di conoscenza su quanto avviene in un paese dove, solo per dirne una, gli agenti della “polizia morale” picchiano e uccidono donne che non «portano correttamente il velo» come è avvenuto un anno fa a Mahsa Amini, o adolescenti che non lo indossano per nulla (in questo regime vige l’obbligo dell’hijab), come è avvenuto solo qualche giorno fa alla sedicenne Armita Garawand, ora ricoverata in stato di coma all’ospedale Fajr di Teheran.
Insomma, questo film ritrae con asciutta efficacia – a tratti con risvolti perfino comici – quella che si può chiamare la “quotidianità del male” esercitata da tanto oscuri quanto coscienziosi burocrati, confermando così quanto scrisse Martin Luther King:«Nulla al mondo è più pericoloso di un’ignoranza sincera e di una stupidità coscienziosa».
Maria Antonietta Nardone © Tutti i diritti riservati
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