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Maria Antonietta Nardone

L'isolamento e il nulla


(Foto della locandina presa dal web)


TRE PIANI

di Nanni Moretti

con Margherita Buy, Nanni Moretti, Alessandro Sperduti, Riccardo Scamarcio, Elena Lietti, Alba Rohrwacher, Adriano Giannini, Denise Tantucci, Anna Bonaiuto, Paolo Graziosi, Stefano Dionisi, Tommaso Ragno, Francesco Acquaroli


Liberamente tratto dal romanzo omonimo scritto da Eshkol Nevo, il film racconta le vicende di tre nuclei famigliari che abitano i tre piani di una signorile palazzina nel quartiere Prati, a Roma. Al primo piano, Lucio e Sara hanno una figlia, Francesca, che lasciano spesso presso il vicino di pianerottolo, Renato, un anziano signore che mostra i primi segnali di una demenza senile. Monica, al secondo piano, partorisce la sua prima figlia, Beatrice, senza nessuno accanto – il marito, Giorgio, lavora lontano, in una piattaforma petrolifera. Al terzo piano, una coppia di giudici, Vittorio e Dora, si trovano a fronteggiare una situazione drammatica: il figlio Andrea, alla guida in stato di ebbrezza, ha appena investito ed ucciso una donna.

Una sera, Renato e la piccola Francesca non si trovano. Ritrovati più tardi in un parco lì vicino, Lucio comincia ad avere il sospetto che la figlia abbia potuto subire un abuso sessuale. Un sospetto che diventa un’ossessione di cui non riesce a liberarsi. Monica, invece, che trascorre il suo tempo sempre da sola, vive la sua maternità atterrita dalla paura di cadere nella follia così come è accaduto alla madre. Il giovane investitore, Andrea, chiede ai genitori di aiutarlo e di evitargli il carcere. Il padre mostra però una tale rigidità che non può che portare all’allontanamento del figlio.

Dirò subito che quello che traspira da questo film è una sofferenza ed una solitudine che sconfina nell’isolamento entrambe molto profonde e che avvolgono quasi tutti i personaggi. Una solitudine che artiglia sia i singoli individui sia le coppie. Mentre la sofferenza, sia quella celata sia quella manifesta, resta irrimediabilmente inascoltata. Le coppie poi sono formate da persone che sembrano più delle monadi che non delle persone.

Ecco quello che emerge con lancinante inquietudine e raggelante sgomento durante la visione del film è l’inesistenza della relazione sia con se stessi sia con gli altri. Nessuno sembra avere una relazione, una qualsiasi relazione – non dico una relazione sana – con alcuno. E questa assenza di relazione è talmente smaccata e sofferta che si arriva ad immaginare di vedere persone pur di avere qualcuno con cui dialogare, come accade a Monica.

Mi è sembrato questo il nocciolo del film: il girare a vuoto, che porta comunque sofferenza e solitudine, quando la relazione tra gli individui viene a mancare del tutto. Relazione assente nella coppia, nel rapporto genitore-figlio, nella famiglia, d’origine o formatasi successivamente. Praticamente inesistente perfino l’amicizia, aspetto questo che mi ha davvero profondamente colpito. Nessuno di questi personaggi ha un amico o un’amica con cui parlare, andare al cinema o a cena, scherzare o fare una passeggiata ecc. Senza φιλία, senza vera philίa l’essere umano è perduto. Per i greci antichi l’amicizia è il più nobile dei sentimenti umani; chi non ha amici ha una vita da schiavo.

Sartre scriveva nel suo L’Essere e il Nulla che senza relazione o relazioni c’è soltanto la nuda esistenza, che non è vita. Esisti, ma non vivi. Perché vivere comporta il rischio di entrare in contatto o in relazione con l’altro da sé, il rischio di fare delle scelte. Emblematica, in questo senso, mi è parsa la scena in cui Francesca risponde al padre:«Ho paura, ma parto». Ossia ho paura, ma rischio, faccio una scelta – quindi vivo.

Manca anche la relazione con se stessi che porta ad un’assoluta incapacità di introspezione e di riconoscere i propri errori (e penso soprattutto ai personaggi di Lucio e Vittorio).

Non è un ripiegamento nel privato bensì una vera e propria chiusura in se stessi, nelle proprie ossessioni, nelle proprie paure, nei propri risentimenti, nei propri desideri di vendetta e nella rigidità che non riesce a coprire il disamore di un padre per il proprio figlio. I giorni si avvicendano alle notti in case che diventano un guscio protettivo da cui viene esclusa la vita stessa, tutto il movimento e lo scombussolamento che porta una vita compiutamente e pienamente svoltolata, restando così prigionieri delle proprie certezze e delle proprie stesse sofferenze.

E questa chiusura che diventa isolamento corrode tempo, spazi, rapporti e futuro mantenendo i protagonisti in un tempo senza tempo, in un tempo che non scorre, lasciandoli sempre uguali a se stessi nonostante il passaggio di dieci anni – eccetto le bambine che crescono e diventano adolescenti e poi giovani.

Solo alcuni personaggi femminili hanno alla fine la forza e il desiderio di rompere questa chiusura e di aprirsi all’avventura della vita con tutti i rischi che ciò comporta.

I personaggi maschili sono quasi tutti bloccati dalla paura e chiusi al cambiamento. D’improvviso mi è venuto in mente il discorso finale che Melville fa in Habemus Papam quando rifiuta di diventare Papa ed auspica in una guida capace di portare cambiamenti e parla della necessità del cambiamento. La vita è cambiamento e per essere vivi bisogna essere aperti al cambiamento. Diversamente la vita diventa un arido e vuoto e morto rito. Un cambiamento sottolineato anche dalla canzone Todo cambia, cantata dalla magnifica Mercedes Sosa. Sono passati solo dieci anni dall’uscita di questo lungometraggio eppure a me sembra invece che sia trascorsa un’era, una vera e propria era geologica – e non mi riferisco solo al percorso artistico del regista.

Non è un film “perfetto”, quest’ultima esperienza registica di Nanni Moretti: la sceneggiatura, firmata dallo stesso regista assieme a Federica Pontremoli e Valia Santella, ha ellissi non sempre riuscite e taluni dialoghi inverosimili nonché una schematicità di fondo che appesantisce la storia; le tante tematiche messe in campo non sono indagate con compiutezza; le immagini e le inquadrature mancano spesso di forza visiva; alcune scene non sono affatto riuscite come ad esempio la scena dell’amplesso che è goffa – attenzione, non rappresenta la goffaggine, è la scena che è goffa in sé; quella dell’attacco al centro di raccolta/vestiti è brutta mentre quella del ballo collettivo mi è parsa incongrua e non in tono con il resto del film.

Per non parlare poi delle feroci diseguaglianze che ci sono nella recitazione. È un film questo che mostra – credo suo malgrado – chi sa interpretare e chi non sa interpretare. Buy, Acquaroli, Bonaiuto, Graziosi, Ragno appartengono alla prima categoria; Scamarcio, Moretti (in qualità di attore), alla seconda.

Ma, nonostante queste “imperfezioni”, Tre piani è anche un film che ha il coraggio di raccontare questa sofferenza inascoltata e questo isolamento quasi compiaciuto che abita chi abita le agiate case di Roma come di una qualsiasi grande città europea, come a dire che abita il nostro tempo. E lo fa con un voluto intento antispettacolare e antimelodrammatico: cosa rara nella filmografia italiana degli ultimi decenni.

Anche l’arte è relazione e ricerca di relazione. Chi scrive, chi dirige, chi compone spera di trovare in chi lo legge, in chi lo vede, in chi lo ascolta un suo simile. Giorgio Colli, nell’introduzione a Al di là del bene e del male scrivendo su Nietzsche, afferma:«Chi si distacca a quel modo, però, getta uno sguardo attorno a sé, spia l’orizzonte, spera nella solitudine di scorgere un suo simile. Questa rimane la grande speranza, mai spenta, l’attesa degli amici». Insomma, perfino uno come Nietzsche sperava nell’attesa degli amici ossia di qualcuno che riconoscesse e sentisse come proprie le questioni da lui poste.

Ecco io credo che Moretti abbia voluto mostrarci il suo sgomento davanti a questa assenza di relazione che porta ad un isolamento mortifero e deprimente; che abbia scrutato questo abisso relazionale di una vita devitalizzata ed abbia voluto condividere questo suo sentimento con gli spettatori. Spettatori in grado di accogliere e rispettare questo suo sgomento e di riconoscere le questioni da lui poste perché:«Questa rimane la grande speranza, mai spenta, l’attesa degli amici».




Maria Antonietta Nardone © Tutti i diritti riservati


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