La montagna non mi ha mai fatto male
(Foto della locandina presa dal web)
LE OTTO MONTAGNE
di Felix Van Groeningen e Charlotte Vandermeersch
con Alessandro Borghi, Luca Marinelli, Filippo Timi, Elena Lietti, Elisabetta Mazzullo, Surakshya Panta
Le otto montagne di Felix Van Groeningen e Charlotte Vandermeersch è un film che attraverso l’amicizia di due bambini, poi divenuti uomini, racconta la ricerca del proprio posto nel mondo e, allo stesso tempo, la ricerca di un padre che si credeva di conoscere ma che riserverà sorprese.
I genitori di Pietro, un bambino di 12 anni che vive a Torino, prendono in affitto per l’estate una casa in montagna. Qui, a Grana, ai piedi del monte Rosa, Pietro incontra Bruno, suo coetaneo, che vive con gli zii perché il padre è andato a fare il muratore in Svizzera.
Tra i due nasce un forte legame di amicizia, che pur essendo discontinuo nel tempo, li tiene comunque uniti. Quando si rincontreranno, quindici anni dopo dall’ultima volta, ormai giovani uomini, si accorgono che “il luogo” di quel legame è sempre stato lì, con loro, dentro di loro.
E la ristrutturazione di un ammasso di pietre da far diventare una baita, una vera e propria piccola casa, in alta montagna, come esaudimento del desiderio del padre di Pietro, frattanto morto, approfondisce e rinforza il loro legame.
Entrambi cercano la propria strada e vogliono che sia una strada che si discosti da quella dei rispettivi padri, con i quali sono o sono stati in conflitto.
Per Bruno, montanaro mai allontanatosi dalle sue montagne, è la gestione di un alpeggio. Per Pietro è dare consistenza al proprio sogno di scrivere un libro.
È questo un film sulla durezza della montagna e sulla durezza dell’esistenza, che non risparmia nessuno. Sulla difficoltà di sopravvivere lavorando in un alpeggio, ad esempio, con tutte le nuove regole europee che limitano e strangolano i piccoli gestori; sulla consistenza dell’amore che può morire di colpo lasciando un dolore ed una disperazione entrambi fortissimi. Oppure, sulla caparbietà di vivere in una baita, anche nelle impossibili condizioni invernali, perché si è convinti che «la montagna non mi ha mai fatto male» come afferma sicuro Bruno.
Pietro invece scopre le montagne dell’Himalaya dal versante nepalese. Viaggia tra quei villaggi in quota abitati ed animati da tantissimi bambini e ragazzini che vanno a scuola, che giocano a pallone mentre i paesi di montagna sulle Alpi si vanno via via svuotando fino a rimanere deserti. Quando si rincontra con Bruno gli racconta del mito delle otto montagne e degli otto mari che circondano un monte altissimo, il monte Sumeru (che significa “magnifico Meru”). Chi conosce ed impara di più dalla vita? Chi è salito sul monte Sumeru, e lì è sempre rimasto – quasi come in una prigione – oppure chi ha percorso gli otto mari e le otto montagne?
Oltre a questa cosmologia, che appartiene sia agli hindu sia ai buddhisti, Pietro racconta anche dei “funerali celesti” (la sepoltura celeste), che secondo la tradizione tibetana vuole che i cadaveri vengano prima scuoiati, le membra tagliate con un’ascia e poi lasciate in un luogo sacro (di solito un’altura) a divenire cibo per gli avvoltoi.
In questo film, girato in 4:3 (ossia in un formato quasi quadrato), si respirano le pietraie, i ghiacciai, i laghi, le vette, la neve, i fiumi della montagna nella sua sovrana e dura bellezza. Gli sguardi e gli abbracci dei protagonisti valgono più di qualsiasi parola o scarno dialogo. Il film indaga con profondità anche nel mistero di un individuo e nel mistero dell’amicizia. A volte capita che si vorrebbe “salvare” un amico, o una persona carissima, ma costui non vuole (o non può) essere “salvato”. L’impotenza è una brutta bestia da contrastare quando si vuole bene ad una persona. Quindi, che si può fare? Si sta accanto all’amico, e basta. E questo stargli accanto permette di partecipare al suo mistero.
Bello anche il tema della effettiva conoscenza dei propri genitori. Da figli, si pensa di conoscerli. Invece, spesso, si scopre che hanno avuto desideri e mondi segreti che ribaltano l’idea che ci siamo fatti di loro.
Tratto dal romanzo omonimo di Paolo Cognetti, uscito con Einaudi nel 2016, il film ha una regia attenta ed in ascolto di uomini e luoghi. Bellissima la fotografia di Ruben Impens sia negli esterni sia negli interni della baita, dell’alpeggio, della casa affittata in paese. Calzanti le musiche di Daniel Norgren. Gli attori protagonisti, Alessandro Borghi e Luca Marinelli, sono talmente bravi da non sembrare attori bensì gli autentici personaggi della storia. Soprattutto Borghi, che ha un’indiscussa capacità camaleontica nel restituire il personaggio di volta in volta incarnato; e penso al suo Vittorio in Non essere cattivo di Claudio Caligari, al suo Stefano Cucchi in Sulla mia pelle di Alessio Cremonini e al suo Remus ne Il primo re di Matteo Rovere, solo per citare i primi tre che mi sono venuti in mente. Altrettanto bravi e naturali mi sono parsi Filippo Timi (Giovanni, il padre di Pietro), Elisabetta Mazzullo (Lara), Elena Lietti (Francesca, la mamma di Pietro) e Surakshya Panta (Asmi).
Mi è piaciuto questo film? Sì, mi è piaciuto. Mi ha emozionato. Mi ha suscitato più riflessioni. Alla fine, però, mi ha lasciato una grande tristezza. Di solito i film sulla montagna mi iniettano ariosità, libertà e vitalità. Questo film mi ha lasciato una tristezza fonda, da cui ho fatto fatica a liberarmi. E nemmeno vedere la catena dell’Himalaya e i suoi villaggi abbarbicati sul nulla, i ponti tibetani e le bandierine di preghiera (i cavalli-vento), la cui visione, dal vivo o da un video di solito mi entusiasma, mi ha sollevato l’animo. Non saprei bene se ciò sia dovuto al romanzo da cui è tratto, oppure se questa tristezza sia invece una cifra peculiare del co-regista Van Groeningen. Il suo pur bello, ma dolorosissimo Alabama Monroe, ricordo che mi lasciò non solo tristezza bensì disperazione: una disperazione senza scampo.
Però, mi basta ricordare quando feci la circoambulazione del monte Kailash (che la tradizione buddhista tibetana riconosce come il luogo fisico del monte Meru sulla terra), il pellegrinaggio sacro che si svolge in tre giorni di cammino e copre 53 chilometri (per altri 56 km.) con un’altitudine che va dai 4.670 metri ai 5.630 metri del passo Drolma (il Drolma-la), nell’agosto del 2019, nel Tibet occidentale, per ritrovare quell’ariosità, quella libertà e quella vitalità che il contatto con le montagne mi porta sempre come un dono benefico e graditissimo.
Maria Antonietta Nardone © Tutti i diritti riservati
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