La quotidianità dell'orrore
(Foto della locandina presa dal web)
LA ZONA D’INTERESSE
di Jonathan Glazer
con Sandra Hüller, Christian Friedel, Ralph Herforth, Medusa Kpnof
Schermo nero. Cinguettìo di uccelli. La visione delle immagini si apre con un picnic sul fiume. Chi va a raccogliere mirtilli, chi si tuffa nel fiume. È l’incipit de La zona d’interesse, diretto da Jonathan Glazer, un film che adopera un nuovo linguaggio ed inventa un nuovo modo di raccontare, senza far vedere nulla, come si è attuata – e si sia potuto attuare – la Shoah.
Vediamo la vita quotidiana di una famiglia agiata, che vive in una villa con un grande giardino, una serra, l’orto, una piscinetta per i bambini. Il via-vai dei domestici, le ambizioni lavorative, la cura e l’affetto per i figli e per gli animali: insomma, sembra di assistere ad un’anonima e quieta vita in campagna come ce ne sono tante. Proseguendo nella narrazione, alcuni dettagli ci fanno capire dove si è: non solo il muro oltre il quale si vede il filo spinato, una torretta di guardia e le costruzioni in mattoni già tristemente viste in tanti documentari, ma anche clangori, urla, latrati di cani, pianti di bambini e spari. Di notte, il fiammeggiare delle fornaci e il fumo dei camini dei forni crematori. E, immagino – e così come è stato raccontato dai testimoni – l’odore nauseabondo di carne bruciata che non lasciava mai quel luogo, quella sinistra zona di interesse. Sì, si è ad Auschwitz e la villa che sorge accanto al campo è abitata da Rudolf Höss, sua moglie Hedwig, e i loro cinque figli, l’ultimo dei quali nato proprio qui, nel konzentrazionenlager più grande d’Europa.
Il dialogo che Hedwig ha con la madre che l’ha raggiunta, dove si parla de «il giardino del Paradiso», «mi chiamano la regina di Auschwitz» detto con quel sorriso di autocompiacimento e i capelli, con le treccine che le incorniciano il volto come una coroncina, «sei caduta in piedi figlia mia!» «Non ti metterai mica degli ebrei in casa?» «No, sono polacchi», mi ha fatto sobbalzare.
Quando ho sentito pronunciare le parole Canada (il magazzino dove si ammassavano tutti gli effetti personali depredati ai deportati), stücken (“pezzi”, così venivano definiti gli ebrei fin dalla Conferenza sul Wansee, dove si scrisse, nero su bianco, della soluzione finale), carico (riferito ai trasporti di persone che, spesso, finivano direttamente nelle camere a gas) ho rabbrividito. Le tavole imbandite di ogni pietanza e leccornia, i fiori colorati e dai nomi rari, la fiaba di Hansel e Gretel, la pelliccia presa dal Canada, il sadismo nascente del figlio maggiore sul proprio stesso fratello, il compiacimento di Höss per le migliorie e le innovazioni portate allo sterminio degli ebrei d’Europa nel suo campo-modello, il Konzentrationslager Auschwitz, che è stato un campo non solo di concentramento bensì di messa a morte (secondo la locuzione usata dallo storico Marcello Pezzetti), scorrono in immagini fredde e geometriche che annientano.
Il pre-finale, che non rivelo, è un tuffo al cuore per chiunque sia stato ad Auschwitz 1 e ad Auschwitz-Birkenau, in silenzioso e triste pellegrinaggio. E quello spioncino a me ha ricordato una scena del film Amen di Costa-Gravas.
I conati di vomito finali che aggrediscono Höss suggeriscono che l’inconscio si ribella a quanto il freddo e spietato raziocinio continua imperterrito a fare. Colui che ha tradotto in realtà l’Endlösung degli ebrei d’Europa, con un efficientamento industriale da premiare con una promozione, non può che scendere le scale che portano nelle tenebre più buie.
Da un certo punto in poi, ero come annichilita. Quando Frau Höss, per rimproverare la domestica, le dice:«Dico a mio marito di spargere le tue ceneri sui campi di Babice», mi si è schiantato qualcosa dentro. Alla fine della visione, scorsi i titoli di coda, ho fatto fatica ad alzarmi dalla poltroncina. Avevo poi bisogno di aria, di uscire, di respirare, di camminare, di sentire un vento pulito in faccia.
La prossimità con un orrore senza fine, anche se non si è direttamente responsabili di quell’orrore come Höss, tocca tutti noi. Quell’oncia di indifferenza nel vedere l’ennesimo senzatetto dormire in un’aiuola, sotto un portico o nei vani delle stazioni; quel grado di cecità davanti all’ennesimo migrante o rifugiato che chiede una moneta ci riguarda, ci costringe ad interrogarci e a decidere come comportarci.
Insomma, senza mostrare nulla di quanto avveniva effettivamente nel campo, che è irrappresentabile, secondo una nota affermazione di Theodor W. Adorno, questo film mi ha annichilito ed impietrito ad un tempo.
L’arte arriva dove nemmeno la testimonianza dell’autentico Rudolf Höss nel suo memoriale Comandante ad Auschwitz è riuscita ad arrivare.
Glazer, grazie anche ad una sceneggiatura raffinatissima, a cineprese fissate in più punti e senza primi piani, ha girato con un distacco che amplifica l’orrore di non voler vedere, non voler udire e non voler sentire il dolore senza misura che pulsa in quel campo.
Incredibile il lavoro sonoro ideato da Mica Levi capace di esprimere tutto lo stridio lacerante ed angosciante di quel luogo.
Mentre il montaggio di Paul Watts, che segue le direzioni degli interpreti che si muovono in scena, rende appieno tutta l’automaticità dei personaggi che sembrano come percorrere dei percorsi obbligati, quasi rotelle di un ingranaggio.
I due interpreti principali sono fenomenali. Soprattutto Sandra Hüller, che è il film. Sandra Hüller, già ammirata in Anatomia di una caduta di Justine Triet, fa un lavoro sul corpo che ha del prodigioso. Non sembra nemmeno recitare; lei è Hedwig Höss. Andatura sgraziata, postura inelegante, impersona Hedwig, la regina di Auschwitz, la fattrice di bimbi biondi e “ariani”, in una maniera che io credo resterà memorabile e che, personalmente, mi ha inquietato più della figura di Magda Goebbels vista ne La caduta di Oliver Hirschbiegel. Christian Friedel, somigliantissimo all’autentico Rudolf Höss, recita tutto in sottrazione ed esprime benissimo tutta la scissione dell’io che opera in questo individuo.
Mi sento comunque di suggerire la lettura di Comandante ad Auschwitz con la prefazione imprescindibile di Primo Levi che smaschera le menzogne ed allo stesso tempo “inchioda” Höss alla sua consapevolezza ed alla sua responsabilità. Così come risale all’ideologia nazista propagandata da Goebbels – e non solo da lui. Senza la disumanizzazione del “nemico”, visto come un pidocchio da eliminare, non si arriva ad attuare un genocidio.
La potenza dirompente e la forza simbolica di tante immagini fanno di questo film un’opera che, chi voglia in futuro trattare di questi temi, non può ignorare. A capisaldi come Shoah di Claude Lanzmann e Il figlio di Saul di László Nemes aggiungo ed accosto La zona d'interesse di Jonathan Glazer.
L’immagine di quel muro per non voler vedere, e che non ci salva, mi gironzola a lungo in testa. E pensare che proprio un poeta tedesco, Hölderlin, scriveva che «in prossimità del pericolo cresce ciò che salva». Mutuando questo bellissimo verso, mi verrebbe da dire che «in prossimità dell’orrore potrebbe crescere anche ciò che ci salva» (come si vede nell’unica scena ariosa e con un po’ di speranza di tutto il film, quella in cui la ragazza polacca suona al pianoforte).
Maria Antonietta Nardone © Tutti i diritti riservati
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