Le visioni di Nelly
(Foto della locandina presa dal web)
PETITE MAMAN
di Céline Sciamma
con Joséphine Sanz, Gabrielle Sanz, Stéphane Varupenne, Nina Meurisse, Margot Abascal, Florès Cardo, Josée Schuller
È molto difficile raccontare l’infanzia con autenticità senza ricorrere a toni smielati e/o melodrammatici. È molto difficile restituire artisticamente l’incanto dell’infanzia, e non perché l’infanzia sia un incanto, tutt’altro – è piena di solitudine, paure, sofferenze –, ma perché durante l’infanzia si è ancora predisposti all’incanto ed all’incantesimo e il mondo, il mondo tutto, è un mondo sacro – intendo percepito come sacro che se ne sia consapevoli o meno.
Ebbene, Céline Sciamma, con il suo film Petite Maman che dura un’ora e dodici minuti, ci è riuscita appieno.
Nelly, una bambina di otto anni, sensibile, ma senza fronzoli e smancerie, ha appena perso la nonna. È molto rammaricata perché non è riuscita a salutarla bene prima che morisse. E i ripetuti arrivederci della scena iniziale sono un dolce e toccante atto di riparazione. Il padre e la madre la portano con loro nella casa della nonna, in campagna, per svuotarla. Nelly inizia a scoprire il mondo della madre, Marion, quando era bambina. Trovano i quaderni di lei e li sfogliano insieme. La madre le racconta le sue paure di bambina: le figure che vedeva sulla parete prima di addormentarsi. E le racconta di quando aveva costruito una capanna nel bosco dietro casa. Al mattino, il papà le comunica che la mamma è dovuta andare via, così, senza preavviso. Inizia da qui la parte immaginifica della storia. Nelly gironzola nel bosco ed incontra una bambina che trascina un tronco. Divengono subito amiche. Si asciugano i vestiti inzuppati di pioggia, bevono il latte caldo, fanno frittelle o risputano nel piatto una zuppa che non piace. Non vado oltre per non rivelare troppo del racconto.
E così tra l’elaborazione del lutto per la nonna e il vuoto dell’improvvisa assenza della madre, la forza dell’immaginazione di Nelly prende luogo componendo l’ignoto (il passato della nonna e, soprattutto, quello della madre) e risolvendo una delle più ataviche paure che può avere una bambina – essere, ad esempio, la causa della tristezza di un genitore. «Sono io la causa della tua tristezza?». E tutti noi possiamo sentire quanta paura, quanta incertezza, quanta sofferenza nasconda quella domanda!
Diverse le scene che rimandano alle fiabe (l’entrare ed uscire dal bosco da sola) oppure che sono altamente simboliche come la capanna simile alla piramide (luogo di gestazione e resurrezione per gli Egizi) o come il padre che decide di radersi la barba (un volto nuovo e più bello, una nuova identità) o come la bellissima scena del canotto che solca l’acqua (l’inconscio e la femminilità lunare per Jung) e s’inoltra in una grotta (ambiente amniotico, nuova nascita, esplorazione dell’io interiore). Da notare poi che è Nelly che dirige il canotto con la sua pagaia, fatto questo tutt’altro che secondario. È lei, il futuro che spinge e va avanti.
L’abbraccio finale tra madre e figlia è un abbraccio nuovo, diverso dai precedenti perché Nelly, nella sua esplorazione fantastica, è salita nella spirale della conoscenza e della crescita. E non si dà crescita senza conoscenza. Quando poi la conoscenza avviene attraverso l’immaginazione essa è ancora più pura – come ogni artista sa fin troppo bene.
La grandezza di questo film risiede nell’indagare la sofferenza spirituale e morale di un soggetto poco indagato come appunto può essere una bambina. Non solo: a me è parso che la regista rintracci una vocazione artistica, ancora ignara di se stessa, nell’uso compositivo che Nelly fa della sua immaginazione. Difatti, che cosa sono le visioni di Nelly se non la prova di un’artista in nuce, di colei che possiede la qualità innata, ma non ancora, per limiti d’età, la qualità tecnica di una regista cinematografica? Del resto, chi, se non uno spirito creativo, può aver sognato di conoscere il passato della propria madre o addirittura di incontrarla quando era anche lei ancora una bambina? Ed in questo sogno ed in questo bisogno non vi è forse la percezione di una verità poetica? È l’incontro di una coscienza ancora minuscola, e, ribadisco, ancora ignara di se stessa come futura artista, con un mistero che può essere percepito e visto, e a cui, un giorno, deo concedente, si potrà dare forma e racconto cinematografici.
Finissimamente scritto e diretto da Cèline Sciamma, il film ha la naturalezza di un Rohmer con gesti, tempi e suoni naturali, senza alcuna musica ad interferire nel quadro visivo eccetto la bellissima scena del canotto, l’acqua e la grotta quando erompono a tutto volume le note della colonna sonora La Musique du Futur firmata da Para One. Bellissima poi è la composizione delle immagini e delle inquadrature – spessissimo ad altezza di bambina. Tutte le scene con i colori caldi dell’autunno nel bosco, le luci e le ombre mobili sui muri bianchi della camera da letto, le stanze semivuote che si riempiono della fantasia di Nelly sono molto suggestive grazie anche alla fotografia delicata e fortemente evocativa di Claire Mathon. La regista, insomma, non spiega, non annota, non pontifica; fa semplicemente emergere alla luce l’incantata complessità che abita l’infanzia di ogni individuo affidandosi completamente all’indiscussa forza dell’immaginazione dell’autrice stessa e della sua protagonista. Affidandosi, soprattutto, a tutte le capacità e le possibilità che il cinema offre e sa offrire a chi lo sa fare.
Sono rimasta stupita dall’intensità dei volti delle due bambine, dal tempo e dalla modalità dei loro gesti così freschi, così esatti, così veri. Davvero bravissime e genuine Joséphine Sanz e Gabrielle Sanz, le due sorelle gemelle che interpretano rispettivamente Nelly e Marion.
Questo film, infine, mi ha riportato alla mente uno dei ricordi più indelebili della mia infanzia quando, anch’io ad otto anni, guardando il sole tramontare sui prati e le montagne delle Dolomiti ebbi l’intuizione di quanto dolorosa possa essere la bellezza. Di scoprire il dolore nella bellezza in un intreccio inestricabile. Di sentirlo negli occhi, nello stomaco e nell’anima. Un’epifania che si trasformò in una consapevolezza che non avrei più dimenticato tanto si era impressa in tutta me stessa.
Perciò, grazie anche alla grazia ed alla profondità di questo film, mi sento di dire: mai sottovalutare l’anima delle bambine di otto anni (in realtà, di qualsiasi età), il loro dolore, qui compostissimo, ma non meno pulsante, e la potenza evolutrice della loro folgorante immaginazione.
Maria Antonietta Nardone © Tutti i diritti riservati
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