Ognuno soffre la propria ombra
CHANTAL AKERMAN – UNO SCHERMO NEL DESERTO
di Ilaria Gatti con Alessandro Cappabianca
Fefè Editore, 2019
Che bello questo libro che Ilaria Gatti ha scritto su Chantal Akerman! Bello e profondo! È, a tutti gli effetti, una monografia. Una monografia rigorosa, puntuale, eppure, in qualche modo, anche appassionatamente “creativa”. Ripercorre, o meglio, ritraccia la vita, gli incontri, i film, i libri, i viaggi, i luoghi dell’artista belga che sentiva peraltro di non appartenere ad alcun luogo. E lo fa conducendo il lettore con grazia e con sapienza nell’universo esistenziale e creativo di Chantal Akerman avvalendosi di scene, dialoghi, fotogrammi, voce fuoricampo dei suoi film, per poi avviare pensieri e riflessioni di un tale spessore da travalicare il perimetro di uno studio monografico – il libro è inoltre corredato da foto di famiglia, ritratti fotografici, fotogrammi di suoi film e documentari ecc.
Lo fa focalizzando la sua attenzione su temi come l’identità, la memoria, la scomparsa della memoria famigliare, lo sradicamento e l’urgenza creativa.
Ad un certo punto, si legge:«Concetto di individuo [è] costituito da una serie di frammenti in continua metamorfosi». E come non pensare che, ad esempio, anche per il buddhismo l’io è un agglomerato momentaneo di elementi che mutano incessantemente perché nulla è permanente. E questa impermanenza è esperita e considerata in una accezione tutta positiva.
Ed è comunque attraverso i frammenti dei suoi film, delle parole nei suoi libri o nelle interviste, difatti, che Ilaria Gatti offre un ritratto profondo e pulsante di Chantal Akerman.
Fin da giovanissima Akerman è ossessionata dai sopravvissuti della Shoah. È ossessionata dai morti della Shoah. È ossessionata dall’assenza di entrambi, i morti e i sopravvissuti. Si prefigge pertanto di raccontare il nulla. Il nulla che la Shoah ha prodotto; il nulla che la Shoah ha lasciato ai sopravvissuti e perfino ai figli e ai nipoti dei sopravvissuti. Quasi fosse un’eredità genetica, questo nulla. Un nulla sovrastato da un “sovrumano silenzio” che Akerman ha sentito, sofferto e fronteggiato per l’intero suo passaggio su questa terra.
È la riflessione su questo lascito del trauma ai figli e perfino ai nipoti che fa di questo libro, un libro notevolissimo che si affianca alle pubblicazioni più recenti su questo argomento come, ad esempio, Fatina Sed – Biografia di una vita in più curato da Anna Segre e Fabiana Di Segni dove il peso di questa eredità, il peso di questo trauma transgenerazionale è indagato in una maniera molto chiara e cogente.
In un documentario dedicato ad Aharon Appelfeld, vidi lo scrittore raccontare le sue difficoltà e il suo disagio davanti alla parola “Shoah” dacché essa implicava un annientamento di massa quasi esso fosse un monolite, un blocco unico. Come se a morire non fossero state milioni di persone distinte una dall’altra, ciascuna con la propria unica storia. Al contrario, uno scrittore narra la storia di uno o più individui ben precisi e delineati. Solo quando ha potuto raccontare la storia di Aharon bambino, di Manfred, di Hugo, le sue difficoltà e perplessità sparirono – o comunque si attenuarono considerevolmente. Solo quando ha potuto raccontare la singolarità e la storia di quel preciso ed unico sopravvissuto, ha avvertito di poter assolvere al suo compito di scrittore.
Ma la singolarità di un’esperienza non è solo quella del sopravvissuto, ma è anche quella del figlio/a di un sovvissuto/a, che “eredita” inconsciamente il trauma del padre o della madre. E questo è quanto ha mirabilmente fatto Chantal Akerman con la sua singolare, unicissima filmografia. Questo per lei ha significato essere una “candela della memoria”: illuminare uno schermo vuoto ed animarlo di forme e figure che non avrebbero dovuto esistere – perché lei stessa, la creatrice di quelle immagini, non avrebbe mai dovuto nascere.
Saute ma ville, Jeannne Dieldman, 23, Quai du Commerce, 1080 Bruxelles, News from Home, Aujourd’hui, dis-mois, Letters Home, No Home Movie sono solo alcuni titoli di una traccia cinematografica riconoscibilissima ed indelebile.
All’indubbia ed inestirpabile dolorosità dei suoi film si affianca lo stupore davanti all’imprevedibile e fulminea epifania dell’esistenza ed allo spettatore non rimane che ammirare il suo modo di raccontare, il suo stile, ossia la sua visione del mondo che passa dalla “sua” forma, che è la sua forma, quell’unica forma che ella, e solo ella, sa – così come avviene in ogni autentico artista. Non rimane, insomma, che conoscere ed ammirare la sua arte continuando così a godere del suo talento stratosferico.
Chantal Akerman è stata un’artista completamente disinteressata al consenso. Non le interessava piacere perché, per sopravvivere al silenzio e a quella gomma sinistra che ha cancellato il suo passato famigliare – toccante il suo desiderio di sapere che cosa dipingesse la nonna morta nel lager – non ha potuto far altro che seguire il suo daimon. C’è un verso di Virgilio che recita così:«Quisque suos patimur Manes» che tradotto letteralmente suona così:«Ognuno soffre i suoi Mani» o suoi antenati, e che, con una sapienza psicologica più avvertita, e non ignara del pensiero di Jung, si potrebbe anche tradurre con un audace:«Ognuno soffre la propria ombra». E Chantal Akerman soffrì e patì la propria ombra che si innalzava su un’altra, enorme ombra: quella ereditata dalla madre, Natalia, e dalla sua esperienza di sopravvissuta ad Auschwitz.
Se la Shoah ha prodotto un taglio nella discendenza famigliare, con conseguente scomparsa non solo degli individui, ma anche della memoria di quegli individui, Akerman non può che essere una déracinée, una sradicata. Ma il fatto è che lei non si sente nemmeno una sradicata. Lei sembra proprio non avere radici. Non avere una casa (e non sentirsi a casa in nessun luogo). E forse la sua casa è stata solo la relazione con la madre Natalia. Ma Natalia, da sopravvissuta, una volta diventata madre, «diffondeva intorno a sé un senso di solitudine, di perdita, e spesso era immersa nel suo silenzio». E questo era quello che Chantal aveva assimilato fin da bambina. Questa era l’aria asfittica che aveva respirato. Ma era pur sempre un’aria da respirare. Morta la madre, non avrà più nemmeno quell’unica esperienza di casa; non avrà più nemmeno quell’aria tossica da inalare nei suoi polmoni.
E chissà se alla fine avrà accostato quella verità (o quella parte di una qualche verità) che è «talmente un bene che all’improvviso ti senti leggera e calma».
Maria Antonietta Nardone © Tutti i diritti riservati
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