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Maria Antonietta Nardone

Presto hai dovuto partire



Sono tornata da meno di una settimana dall’India himalayana, dalle sue altezze e dai suoi silenzi, che tanto mi hanno beneficato, quando, improvvisa, mi investe la notizia che Fabio, il mio amico Fabio, il ragazzo e poi marito della “mia” amica Fabrizia, non è più di questo mondo.

Sono senza fiato. Fa caldo. Il sole splende e illumina tutto. Mi siedo. Resto immobile per non so quanto tempo.

Quasi non oso pensare alla reazione e al colpo subito da Fabrizia (la “mia” Bri Bri) e dai loro figli Federico, Eleonora e Beatrice, e poi da Daniela e Michele, e dalla signora Wilma – per fortuna la nascita e la presenza del bisnipote Lorenzo la tengono accostata alla vita, ad una nuova vita che cresce.

Per questo paese, Fabio Papa era un magistrato di grande vaglia, apprezzatissimo dalle comunità in cui ha operato e dai suoi stessi colleghi e superiori; era il sostituto procuratore tanto incorruttibile (ed incorrotto) quanto umano, tanto umano, troppo umano.

Per me, Fabio, era l’amico caro di una giovinezza bella ed indimenticata: quella vissuta a Pescara e a Ferrara.

Ed è quel tempo che ora prende il sopravvento per contrastare una pervicace incredulità a questa dolorosa notizia.

La memoria si apre su una cucina di un appartamento di Ferrara. È pomeriggio. Abbiamo venti/ventun anni. Fabio, Fabrizia, Renato ed io siamo seduti attorno al tavolo. Fabio e Fabrizia hanno davanti ai loro occhi libri di diritto; Renato sfoglia un mastodontico libro di anatomia; io leggo Dostoevskij. Quando qualcuno di noi supera un esame particolarmente tosto, si va a festeggiare da “Giglio”, a gustare le sue prelibatezze, a Pontelagoscuro, presso il Ponte di Ferro che solca il Po – la convivialità era una sua passione irrinunciabile già allora.

E poi, si va al cinema dopo gli allenamenti miei e di Fabrizia. Si va a teatro, al Comunale, a vedere Valeria Moriconi per la regia di Cobelli. Si parla di libri, film (conosceva a memoria le battute più fulminanti de L’angelo sterminatore di Buñuel), spettacoli teatrali, cantautori e complessi musicali, calcio, tennis, basket e dell’amato nuoto; il latino è adorato e citato quanto la “sua” Inter altrettanto adorata e citata oppure si discuteva de Il Flauto magico di Mozart, l’opera preferita sia da lui sia da me.


Il tempo torna indietro a Pescara con Fabrizia, Daniela, Peppino, Renato, Nicola e poi Tonino, Pierpaolo, Fernando, Sonia… È qui che ho festeggiato il mio diciottesimo anno – con e grazie a Daniela, a Cerrano. È qui che cantavamo a squarciagola in macchina «We can change the world, Re-arrange the world» di Crosby, Still, Nash and Young oppure Both sides now di Joni Mitchell, Brigante se more dei Musicanova o la nostra versione de Quanno sona la campana, riscritta e ribattezzata con il titolo “Tammurriata Varta”.

E come dimenticare il bagno in mare fatto in una rigida sera di dicembre nel 1981. Arriviamo in spiaggia, camminiamo fino alla battigia, ci spogliamo e restiamo, noi ragazze, in mutande e reggiseno, i ragazzi, in slip. Si prende la rincorsa tutti insieme e ci si tuffa in mare, tra spruzzi, urla per l’acqua gelida e risate, risate, risate… Immergendo la testa sott’acqua, per lo sbalzo termico, resto un attimo senza fiato. E nuoto, nuoto per scrollarmi da dentro quella sensazione di freddo esagerato. E, mentre nuoto, vedo la luna che è sorta da poco e che è un enorme pallone giallo zafferano.

Finito l’azzardo, la sfida di quel giorno, si procede tutti spediti a riscaldarci nella casa in cui abitavo all’epoca, a Francavilla, proprio di fronte al mare. Qualcosa di alcolico provvide a riscaldarci all’istante. Avevamo belle facce, begli occhi e bei sorrisi; avevamo tutti slanci grandi e sogni ancora più grandi.

E questo tempo di bellezza, questo tempo ribelle e generoso, vissuto tutti insieme, è stato, c’è stato, è nostro, di tutti noi, e nessuno potrà portarcelo via, nemmeno la morte.

Come scrive John Donne:


«Morte, non andar fiera se anche t’hanno chiamata

possente e orrenda. Non lo sei.

Coloro che tu pensi rovesciare non muoiono,

povera morte, e non mi puoi uccidere.

Dal riposo e dal sonno, mere immagini

di te, vivo piacere, dunque da te maggiore,

si genera. E più presto se ne vanno con te

i migliori tra noi, pace alle loro ossa,

liberazione all’anima. Tu, schiava

della sorte, del caso, dei re, dei disperati,

hai casa col veleno, la malattia, la guerra,

e il papavero e il filtro ci fan dormire anch’essi

meglio del tuo fendente. Perché dunque ti gonfi?

Un breve sonno e ci destiamo eterni.

Non vi sarà più morte. E tu, morte, morrai».


Sì, tu, morte, morrai. Ma è con la musica de Il Flauto magico che voglio sfumare questo ricordo di Fabio, e di una fresca giovinezza in comune: e mi pare di sentire il tocco sublime che modula quel «Sein Ton sei Schutz in Wasserfluten» (Il suo suono sia di protezione tra i flutti)…

Buone nuotate, Fabio, in un mare a noi ancora ignoto, conoscendo adesso, prima di tutti noi amici, quel Mistero che ci attende e la cui insvelabilità terrena ha sostanziato l’inquietudine di tanti di noi, ed in una luce che ora, per te, «incessantemente risplende».





Maria Antonietta Nardone © Tutti i diritti riservati



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