Quando l’anima è un’erba secca
(Foto della locandina presa dal web)
RACCONTO DI DUE STAGIONI
di Nuri Bilge Ceylan
con Deniz Celiloğlu, Merve Dizdar, Musab Ekici, Ece Bağci, Erdem Şenocak, Yüksel Aksu
In un paesaggio completamente innevato, un pulmino scarica un uomo che comincia a camminare sulla neve per raggiungere il villaggio che è qualche chilometro davanti a sé.
L’uomo è Samet, un insegnante di storia dell’arte alle scuole medie, e sta rientrando a scuola dopo le vacanze natalizie. Qui ritrova i suoi colleghi, nella sala professori, e i suoi alunni, in aula.
È stato designato nella scuola di questo villaggio remoto per il servizio obbligatorio. Alla scadenza del quarto anno di insegnamento, si può chiedere il trasferimento, e Samet non vede l’ora di ritornare ad Istanbul, e, così, ad una vita «non noiosa e priva di pettegolezzi».
Condivide la casa in cui vive con un collega, Kenan, diventato frattanto suo stretto amico e confidente. Le sue aspirazioni artistiche non si esercitano più sul disegno; preferisce fare ritratti fotografici alle persone del luogo – un militare, un pastore, un bambino – avendo per scenario il paesaggio duro ed aspro dell’Anatolia orientale.
Da qui prende l’abbrivo una storia, e tutto un modo sapiente di raccontare, che mi avvincerà fino alla fine.
Un fatto imprevisto (ma che in realtà non è imprevisto affatto come si vedrà) sconvolgerà la routine esistenziale di Samet. Due sue alunne, Sevim e Halime, accuseranno lui e Kenan «di aver commesso atti inappropriati». I due insegnanti vengono convocati dal Direttore generale. In questo colloquio, che ha aspetti non poco surreali ed involontariamente comici, così come anche la chiarificazione con il preside Bekir, che li ha segnalati al Direttore generale, emerge un mondo corrotto ed insensato che sembra riecheggiare più il mondo ritratto da Mungiu che non quello rappresentato da Vintenberg nel suo Il sospetto – considerata la natura dell’accusa.
L’esistenza continua a scorrere in queste latitudini dove, in pratica, ci sono solo due stagioni: l’inverno e l’estate. La neve continua a ricoprire i villaggi e gli animi dei suoi abitanti. Ma non di tutti. L’incontro con Nuray, difatti, un’insegnante di inglese che lavora in una paese vicino, rimasta senza gamba in seguito ad un attentato, dà forma ad una calda amicizia tra i tre (Samet, Kenan e Nuray), e sarà la chiave di volta sia per Samet sia per Kenan, per la loro amicizia, e, soprattutto, per un’autentica conoscenza di se stessi. E sì, perché, la maestria drammaturgica di Ceylan (e della sceneggiatura firmata, oltre che dal regista stesso, anche da Akin Aksu e da Ebru Ceylan) è nel mostrarci come non si è affatto quello che crediamo – con molta auto-benevolenza – di essere. Si parte con lo slancio di portare un po’ di civiltà in una landa aspra e prigioniera di pregiudizi, pettegolezzi e sconfitte politiche e si scopre invece di essere anche egoisti, meschini, bugiardi, abusanti di potere ed incapaci soprattutto di conoscere se stessi, l’autentico Sé, quello che ha luci, certo!, ma che non può non avere anche ombre; ombre che diventano insidiosissime quando non sono conosciute e riconosciute. E noi spettatori seguiamo questo svelamento, a poco a poco, accanto e assieme a Samet.
I dialoghi in cui sono coinvolti i personaggi sono intensi e serrati, sia negli interni sia negli esterni. Quello che Samet ha con Nuray, a cena, sembra un vero e proprio duello western in un saloon, con la capacità dialettica dei due contendenti al posto delle pistole. E devo dire che la forza ideale ed impavida, lucida ed indipendente di Nuray smaschera tutti i velleitarismi e la falsa coscienza (quella individuata e teorizzata da Adorno) di Samet. I disegni colorati di Nuray, difatti, prima che nasca il dialogo-duello, preannunciano una potenza ed una vitalità che le foto di Samet, piatte e didascaliche, non hanno.
L’affondo nelle anime dei personaggi è l’aspetto che più mi ha colpito, per finezza psicologica e genuinità di pensiero. Samet, ad esempio, si considera un ottimo insegnante e non si accorge che non si umilia così un’adolescente innamorata – anche se credo che qui a mancare sia proprio la qualità e la maturità dell’uomo. Perché non si tratta di minimizzare, come crede di fare l’integerrimo professore; qui è proprio l’umiliazione della donna, per quanto acerba, che è dannosa, inopportuna e (per lui) ferale. Ecco perché viene accolta come imprevista un’accusa, che imprevista non è e non può essere – e non perché sia un’accusa vera bensì perché è stata provocata da lui stesso, dalla sua insipienza e dalla sua superficialità nel maneggiare i sentimenti di quelle adolescenti che si sono trovate ad essere sue alunne.
Ma non mancano le critiche ad una società gretta ed oppressiva – la perquisizione degli zaini dei ragazzini e delle ragazzine in classe mette i brividi tanto risulta impropria e violenta – e l’amarezza per vicende politiche che hanno profondamente traumatizzato chi le ha subite – e penso a Vahit e alla sua “irrequietezza”. Così come non manca anche una critica puntuta ed ironica al digitale, che non ha profondità di campo e non può avere il vero respiro di quei paesaggi irti e scabri, come, invece, ha la pellicola. Oppure quando viene inquadrato quell’“Angolo Atatürk” tra i corridoi della scuola, siamo mossi al sorriso, per quanto amaro esso possa essere.
E arriva tutta la durezza irredimibile di abitare in terre dal clima inospitale, dove ogni azione, tra le più semplici, comporta fatica, come raggiungere a piedi la scuola dalla fermata del pulmino su una distesa di neve infinita e sotto una vera e propria tormenta con il vento che soffia così forte da spostare letteralmente di peso qualsiasi corpo dalla linea del suo cammino.
Nelle scene finali, a Nemrut, sulla Montagna degli Dèi, quando questo Racconto di due stagioni chiude il suo cerchio, comprendiamo anche il senso del film, il cui titolo originale Kuru Otlar Üstüne tradotto in inglese è About dry grasses. Comprendiamo che le erbe secche sono le nostre anime quando non hanno spazio ed ossigeno per espandersi e crescere in tutto il loro rigoglioso splendore estivo, vinte dalle delusioni date da una vita sociale scadente così come anche da una radicata pochezza, tutta individuale, che emerge nelle relazioni dove entrano in campo sentimenti più profondi e meno controllabili.
Erbe secche ossia anime come disseccate, che si dibattono tra aspirazioni ideali e cupi egoismi, generosità e miserie, coraggio e paure, per rimanere infine ineludibilmente sole ed isolate. Perché è proprio l’isolamento e l’incapacità di rompere questo isolamento interiore ed esteriore che innerva e sostanzia tutto il film di Ceylan.
L’inquadratura finale del volto corrucciato di Sevim, incorniciato dai riccioli scuri puntellati dai fiocchi neve, con quell’espressione energica ed ambigua, è la chiusa perfetta di un film bellissimo e profondo.
La regia di Ceylan, magistrale ed accuratissima, mi ha ricordato, a tratti, il Leviathan di Zvjagincev che racconta la corruzione, la sofferenza, il paesaggio desolato che rende proibitiva qualsiasi vita agevole, e la rassegnata disperazione che si camuffa troppo spesso con l’alcol o con un’ira incontrollabile. Se in Zvjagincev tuttavia il tormento è anche un tormento di tipo metafisico, in Ceylan, e in questo film, sono tratteggiati in una maniera sublime la fragilità e i velleitarismi di una natura umana eminentemente cechoviana, tanto che invece del celebre «A Mosca! A Mosca!» qui si ha una tanto sognata partenza «Ad Istanbul! Ad Istanbul!», che non si concretizzerà mai.
La fotografia di Cevahir Şahin e Kürsat Üreşin è stupenda e duttile e descrive appieno tutta la solitudine dei diversi personaggi. La scena in cui Samet è sulla collina, di spalle, con la gamba piegata, è splendida e ricorda chiaramente il quadro Viandante sul mare di nebbia C.D. Friedrich.
Poca è la musica scelta dal regista turco – e che musica! Ho riconosciuto un passo delicatissimo, solo musicale, dalla Traviata che accompagna poche e selezionate scene.
Gli interpreti non solo sono supremamente bravi e tutti straordinariamente in parte, ma hanno anche delle facce stupende: Deniz Celiloğlu incarna Samet, con quella sua faccia da Dostoevskij da giovane e, disegnando tutte le contraddizioni del suo personaggio, non esita dal ritrarre comportamenti che lo rendono, spesso, alquanto odioso; Musab Ekici dà freschezza ed energia al suo Kenan; Merve Dizdar dà corpo e anima a Nuray, uno dei personaggi femminili più belli di questi ultimi anni cinematografici: il suo volto, che buca letteralmente lo schermo, ha trasmesso con grande potenza tutta la forza, la sofferenza, la fragilità e la profondità di sentimenti che abitano questa giovane donna duramente colpita dalla sorte, e non a caso l’attrice ha vinto al Festival di Cannes 2023 come miglior interpretazione femminile. La disperazione di Vahit tratteggiata da Yüksel Aksu, tra una sigaretta e l’altra, tra un cicchetto e l’altro, mi ha scavato il cuore; la sinuosa perfidia che Erdem Şenocak trova per il suo Tolga, una specie di Jago anatolico, tutto votato a rompere le relazioni di amicizia, è tanto autentica quanto disgustosa; toccante è la rassegnazione del vecchio Nail, impersonato da Cengiz Bozkurt, una sorta di sopravvissuto alle intemperie politiche del suo paese; e poi c’è Ece Bağci che dona alla sua Sevim tutta l’inviolabile imperscrutabilità degli adolescenti più irrequieti ed orgogliosi.
Da sempre io mi perdo nelle inquadrature di Ceylan – e penso al magnifico Il regno d’inverno – ma qui, con questo suo Racconto di due stagioni, a me pare che la sua arte si sia manifestata in una forma ancora più limpida e compiuta.
Maria Antonietta Nardone © Tutti i diritti riservati
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