Seydou, capitano coraggioso
(Foto della locandina presa dal web)
IO CAPITANO
di Matteo Garrone
con Seydou Sarr, Moustapha Fall, Issaka Sawagodo, Doodou Sagna, Hichem Yacoubi, Khady Sy, Beatrice Gnonko
Matteo Garrone con Io Capitano racconta la storia di due cugini, due sedicenni senegalesi, Seydou e Moussa, che, di nascosto dalle loro famiglie, intraprendono il lungo e tormentato viaggio attraverso il Sahara tra il Mali e poi il Niger per arrivare in Libia, e, di qui, approdare in Italia, ovviamente via mare.
E la racconta in una maniera lineare sì, ma cronachistica, senza palpiti o sobbalzi; stranamente, nonostante la drammaticità della storia, senza avvincere lo spettatore. Mi dispiace dirlo, ma sembra tutto già visto, già conosciuto, già “masticato”. Anzi, a me è parso spesso quasi un racconto edulcorato. Edulcorato riguardo alle atrocità dei campi di prigionia in Libia; edulcorato riguardo alla durezza della stessa traversata nel deserto; edulcorato riguardo alle relazioni tra i migranti appartenenti a paesi e religioni diverse qui descritte sempre prive di qualsiasi conflitto.
Tutti buoni e gentili, i migranti; tutti scontatamente violenti e crudeli le guardie, i militari, i carcerieri, i trafficanti di uomini. E Seydou, in questo viaggio di orrori e di incubi, conserva, comunque, integrità e grazia. E se è vero che nella sua orgogliosa rivendicazione finale, urla più volte il liberatorio «Io Capitano», assumendosi così più un ruolo che un’identità, mentre lo spettatore e cittadino europeo, invece, in lui non vede altro che uno “scafista”, si è proprio certi che un modo incisivo o cinematograficamente riuscito di raccontare questa tragedia della migrazione verso l’Europa attraversando il mar Mediterraneo, che ha fatto decine e decine di migliaia di morti, e che continua a farne, sia questo tra il documentaristico e l’edificante, con un paio di zampate onirico-fantastiche, nemmeno poi così fulminanti? Mi sia lecito dubitarne.
Mi è parso strano, poi, per non dire incomprensibile, perché un regista come Garrone che ha fatto della rappresentazione e del racconto del corpo, in tutta la sua espressività e in tutta la sua crudezza, un tratto distintivo e autoriale della sua filmografia – e penso a L’imbalsamatore, Primo amore, Gomorra, Reality e Dogman – in quest’ultimo film abbia abbandonato questa potenza per rappresentare una sofferenza del corpo attutita, mitigata, quasi rimossa. Non si sente il calore scottante del deserto, ad esempio, non si sente il dolore delle sevizie e delle torture, non si sente il freddo sul ponte del barcone ecc.
La fotografia estetizzante (di Paolo Carnera), la scenografia fin troppo pulita (di Dimitri Capuani), la colonna sonora suggestiva (di Andrea Farri), il buon montaggio (di Marco Spoletini), i costumi (di Stefano Ciammitti) che, di colore acceso a Dakar divengono via via neutri, quasi indistinti come il deserto quando c’è una tempesta di sabbia, non sono sufficienti a “tenere” drammaturgicamente in piedi un film che risulta piatto – eccetto un paio di scene – e didascalico.
La recitazione di Seydou Sarr (Seydou) e di Moustapha Fall (Moussa) è fresca e spontanea anche perché parlano in wolof e in francese, le loro lingue, ma tutte le altri parti, soprattutto, le guardie di frontiera, i traffichini e i trafficanti vari, i militari e i paramilitari libici ecc. sono caratterizzazioni stereotipate del “cattivo” di turno.
L’emozione nelle scene finali è un’emozione epidermica, fine a se stessa, senza alcuna comprensione ed individuazione della responsabilità di chi provoca tutto questo dolore, tutto questo tormento, tutte queste torture e tutte queste morti – come invece avveniva nel film del 2017 L’ordine delle cose di Andrea Segre. Ciò è dovuto ad una precisa scelta di sceneggiatura (firmata da Massimo Gaudioso, Massimo Ceccherini, Andrea Tagliaferri e dallo stesso Garrone), prima, e di regia, poi, le quali si sono concentrate nel creare una sorta di romanzo di formazione, un vero e proprio bildungsroman, dove il protagonista, Seydou, alla fine, dovrebbe avere una crescita interiore. Magari, però, fossero riusciti ad avvicinarsi a quello splendido, indimenticabile romanzo di formazione che è La linea d’ombra di Joseph Conrad! Ai tormenti, alle visioni, alle paure ed alla crescita del protagonista che, tra malaria e bonaccia e la paura di una morte sempre incombente, ma con il fondamentale aiuto di Ransome, il cuoco della nave, si interroga su se stesso, sull’esistenza, sui suoi desideri autentici e sulle sue altrettanto autentiche capacità!
Il Seydou di questa storia di formazione, invece, sembra essere portato avanti da una forza volontaristica, vede bontà e gentilezza ovunque, nonostante le violenze subite e i morti visti, non sembra essere preso da alcun serio dubbio e i suoi tormenti non lasciano traccia nel suo animo. In lui non vedo la consapevolezza raggiunta dopo molte prove né la perdita delle illusioni giovanili; in lui non c’è il passaggio della linea d’ombra dalla giovinezza all’età adulta. Insomma, un romanzo di formazione senza profondità psicologica né complessità di sguardo sulla realtà circostante e su quella vissuta, senza un vero senso del pericolo incombente, che romanzo di formazione è?
Che in mezzo alla disperazione, alla violenza, all’orrore, allo stupro, alla morte, un regista europeo possa pensare e raccontare la formazione di un ragazzo africano, una sua crescita individuale, addolcendo, però, la terribilità di queste realtà, e non apportando alcun approfondimento psicologico sul personaggio principale, io lo trovo un po’ irrispettoso. E lo dico con le parole di Glauber Rocha:«Vedere la bellezza o una crescita interiore in realtà terribili dove non c’è bellezza e non c’è crescita è una scorrettezza intellettuale del regista che la vede e la filma; ed è una scorrettezza per me inescusabile».
Io non sono così dura né così tranchant come Rocha; penso, difatti, che Io Capitano sia un film pieno di buone intenzioni, ma artisticamente proprio non riuscito. Mi sembra, anzi, che Garrone sia alla ricerca di nuove modalità e strutture narrative rispetto ai suoi film precedenti. Che in quest’ultimo, purtroppo, non ha trovato. Gli auguro di tutto cuore di trovarle nei suoi futuri lungometraggi.
Il regista in più interviste ha dichiarato:«Questo film è il controcampo di una scena che abbiamo visto molte volte. Guardiamo la gente che arriva dal mare, a volte viva, a volte morta. Io ho provato a cambiare prospettiva; a guardare che cosa succede prima. Questo tipo di migrazione e di viaggio è stato molto poco raccontato dal cinema […]». Questa affermazione è quantomeno inesatta. Mi permetto di far notare che di film fatti da registi africani che raccontano quel viaggio ce ne sono; ce ne sono eccome! La Pirogue (2012) del senegalese Moussa Touré, o i film-documentari Yoolé, the sacrifice (2010) del senegalese Moussa Sene Absa, The Last Shelter (2021) del maliano Ousmane Samasseku, No Simply Way Home (2022) della sud-sudanese Akuol de Mabior, No U-Turn (2022) del nigeriano Ike Nnaebue. È poi dell’inizio di questo 2023 l’iniziativa del regista tunisino Walid Falleh il quale ha avviato un crowdfunding per realizzare un film-documentario, intitolato Baba Chams, sulla sua città, Zazis, luogo di emigrazione e di repressione della migrazione.
Mentre tra i film europei, sul tema, ricordo il toccante Adú (2020) dello spagnolo Salvador Calvo, vincitore di quattro premi Goya, tra cui miglior regia e miglior attore esordiente, Adam Nouru.
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Ieri sera, Io Capitano di Matteo Garrone ha vinto il Leone d’argento alla migliore regia, Seydou Sarr, il Premio Marcello Mastroianni al giovane attore emergente, alla 80° Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia.
Maria Antonietta Nardone © Tutti i diritti riservati
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