Tra il Po e il West
(Foto della locandina presa dal web)
DELTA di Michele Vannucci
con Alessandro Borghi, Luigi Lo Cascio, Greta Esposito, Emilia Scarpati Fanetti, Denis Fasolo, Marius Bizău, Sergio Roman
Quanto è bello l’incipit di Delta! Entro subito in quest’atmosfera fluviale fatta di vogate leggere, sommesso gorgoglio d’acqua, rami secchi di alti alberi che fanno filtrare un cielo livido e minaccioso.
Siamo sul Danubio. Una famiglia rumena che vive presso il fiume si rende conto che non può rimanere dov’è a pescare di frodo perché gli interventi della polizia sono capillari e costanti. Elia, un italiano che vive da tempo con la famiglia Florian, considerandola sua, decide di portarli tutti nell’intricato delta del Po dove possono continuare a fare bracconaggio uccidendo i pesci con scariche elettriche.
Qui vive Osso, un operaio, che è anche una guardia ittica volontaria come sua sorella Nani. I due perlustrano le aree protette e controllano che non vi siano scarichi velenosi nel fiume. La scoperta che, sugli argini del fiume, si sia stabilita una banda di bracconieri stranieri accende gli animi nonché il motore della storia.
L’aspro confronto generazionale che si apre tra Osso e Nani coglie un nodo cruciale della nostra contemporaneità: Osso è preoccupato per gli scarichi inquinanti che gli industriali (i padroni) continuano a fare nel fiume, focalizzandosi, nella sua mente, nell’ottica della lotta di classe; Nani, invece, è furiosa perché degli “stranieri”, in maniera illegale, rubano i “loro” pesci. «Questa è casa nostra», chiosa assertiva, segnando quel cambio di lettura e prospettiva politica che abita i nostri giorni.
È molto fine aver colto questo passaggio e, su questa finezza, mi sarei aspettata anche il proseguo del racconto.
La comunità locale, inoltre, pensa che il male venga spesso dall’esterno o dallo straniero, e che in essa ci sia solo il bene o che si conservi una sorta di “mitica” innocenza. Personaggi come Causo, il proprietario del bar, sono lì a smentire qualsiasi presenza di bontà o di innocenza.
Evocative e, allo stesso tempo attualissime, le foto e i video di repertorio in bianco e nero della gente del Po nella seconda metà del secolo scorso, che raccontano, come le immagini della storia presente, la stessa dura lotta per la sopravvivenza, sia degli emiliani e veneti dell’epoca sia della famiglia Florian che proviene dalla Romania di oggi.
E grazie alla forza figurativa del regista ho sentito l’odore del grande e maestoso fiume che taglia la pianura padana; ho sentito l’odore della nebbia e del fango, del legno bruciato e dei pesci morti sugli argini; ho preso visione delle barche, dei barconi, dei moli, delle chiatte, dei casoni trasformati in bar; ma, soprattutto, ho visto gli invisibili che vivono nel fitto della vegetazione tra i canali per acciuffare una sempre instabile sopravvivenza. Instabile come l’acqua del fiume che scorre senza sosta.
Una delle parti più commoventi, poi, è il desiderio di protezione che abita entrambi i protagonisti: quello di Osso per la sorella minore Nani, quello di Elia per la “sua” famiglia acquisita e per la stessa Anna, la giovane barista che si è invaghita di lui.
Da un certo punto in poi, però, regia e sceneggiatura cambiano registro e scelgono una via spettacolare per concludere la storia, perdendo mordente – nonostante la caccia all’uomo che si instaura – e, di fatto, abbandonando i personaggi, il loro passato, i loro sentimenti, le loro motivazioni; personaggi che vengono afferrati e trascinati da un tanto violento quanto inspiegabile odio distruttivo, diventando così più degli stereotipi che non dei personaggi. Preda e predatore, costretti ad un conflitto senza esclusione di colpi, si battono come in un duello di frontiera che confonde le ragioni di chi ha fatto e di chi ha subito un torto; le confonde come la nebbia di quelle zone paludose confonde tutto e colora di bianco lattescente ogni forma e ogni contorno. E, attenzione, non è tanto la labilità o la porosità etica a non avermi convinto – che peraltro non è affatto raccontata. È proprio lo sviluppo narrativo che regredisce e si infantilizza in uno scontro che probabilmente voleva essere altamente simbolico mentre a me è parso del tutto incongruo. Il film, purtroppo, si annacqua rispetto alle sue promettentissime premesse e perde presa sullo spettatore.
Di ciò è responsabile una sceneggiatura senza scavo nelle psicologie dei personaggi, nemmeno in quelle dei due principali. L’ossessione di Osso, che ha un’origine appena accennata, non viene compiutamente espressa né descritta; lo stesso vale per Elia, di cui non si sa come mai abbia finito per essere così integrato in una famiglia rumena.
Le lacune di scrittura vengono in parte colmate dalle intense interpretazioni di Borghi e Lo Cascio, che fanno miracoli per sostanziare personaggi quasi senza storia – soprattutto Elia, il personaggio interpretato da Borghi.
Peccato, perché la prima parte del film mi è sembrata di mirabile fattura, mentre poi, con una torsione narrativa ai miei occhi del tutto infelice, si è deciso di passare ad un film d’azione con scoppiettate varie che mi ha ricordato la vicenda di cronaca di qualche anno fa (nel 2017) in cui le forze dell’ordine italiane allestirono una colossale caccia all’uomo proprio nel delta del Po (nelle valli di Comacchio), per catturare il pluriomicida serbo Norbert Feher, conosciuto anche come “Igor, il russo”.
Detto questo, l’interpretazione di tutti gli attori sono notevolissime: intense ed efficaci mi sono parse Emilia Scarpati Fanetti nella parte di Anna (una sorprendente dark lady della bassa ferrarese) e Greta Esposito in quella di Nani (la cui idealistica irruenza avrebbe meritato maggior fortuna); bravo e sempre in parte Denis Fasolo con il suo Zan così come è altrettanto bravo Sergio Roman nel rendere pienamente tutta la sgradevolezza di un uomo come Causo.
Luigi Lo Cascio, che incarna il mite e prudente Osso, per trasformarsi, malgré lui, in un audace vendicatore solitario, è finissimo nel rendere l’ineludibile umanità di personaggi timorosi (come Osso) o altamente “antipatici” – e penso ad Aldo Braibanti ne Il signore delle formiche di Gianni Amelio in cui sfoderava, tra l’altro, un incredibile accento piacentino.
Borghi esprime con grande naturalezza la sofferenza e l’estrema vulnerabilità del corpo umano accanto alla sua coriaceità sia in un ambiente reso ostile dagli umani (come quello dei pescatori e degli abitanti del delta del Po) sia in un paesaggio circostante (come il fiume o la Natura tout court) contro cui non c’è alcuna possibilità di salvezza o di vittoria, data la sua imperscrutabile potenza ed imprevedibilità.
La fotografia di Matteo Vieille è magnifica: si passa dal grigio al bianco latte fino al sole radente dei tramonti mentre, in altri momenti, si osa con una colorazione ottanio o verde petrolio oppure si scalda il tutto con uno stupefacente colore ambrato.
La regia di Michele Vannucci trova immagini di grande forza espressiva e bellezza estetica. Difficilmente dimenticherò il fiume visto dall’alto, radente l’acqua, sott’acqua ecc.
Mi è piaciuto il suo modo di raccontare questa lotta primitiva per la sopravvivenza con i primi piani stretti sui volti dei personaggi, alternati ad ampie vedute in cui il fiume appare in tutta la sua soverchiante ed indifferente superiorità. Mi è piaciuto anche come nei momenti più drammatici il regista abbia deciso di togliere ogni audio, verbale e/o musicale, per affidarsi all’esclusiva potenza di immagini senza suono.
Delta, infine, mi ha ricordato il film di Carlo Mazzacurati La giusta distanza (2007), ambientato anch’esso negli spazi aperti, piatti, talora nebbiosi, del delta del Po; spazi sorprendentemente sempre uguali a se stessi e che paiono quasi non modificati dalla “modernità”; e dove l’incontro tra Mara, l’attraente insegnante toscana, e Hassan, un tunisino titolare di un’officina meccanica, faranno da detonatore di quella provincia agra in cui il paesaggio è un personaggio principale, seguito e filmato con grande cura e con grande affetto. Trait d’union tra i due film è anche la presenza dell’attore Denis Fasolo, il villain di quella triste storia.
Mi ha richiamato alla mente ancora un altro film, anch’esso ambientato sull’acqua e, precisamente, tra i canali di Chioggia: il bellissimo Io sono Li (2011) di Andrea Segre, dove la lotta per la sopravvivenza, per la ricerca di un posto dove vivere, mettono in contatto il vecchio pescatore di origine iugoslava, Bepi, e la tormentata e bellissima Li, appartenente alla comunità cinese. Indimenticabile la qualità della luce sulla laguna chiozzotta percorsa da Bepi con la sua barchetta a motore per raggiungere il suo casone lontano da tutti e da tutto.
Se in Delta si fosse riusciti a raccontare e a dipanare i cruciali ed urgenti temi messi in campo nella prima parte, saremmo davanti ad un film estremamente bello ed originale, dotato di una potenza figurativa davvero fuori dal comune. Così non è stato. Ripeto: peccato!
Ciò non toglie che questo sia comunque un tentativo, riuscito per metà, di trovare nuove, inesplorate vie nell’asfittica cinematografia italiana degli ultimi anni – eccetto le eccezioni, che ci sono sempre.
Maria Antonietta Nardone © Tutti i diritti riservati
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