Un anno senza Kim Ki-duk
(Foto presa dal web)
La morte di Kim Ki-duk (un anno fa, l’11 dicembre 2020) mi ha molto, molto colpito. L’ho saputo improvvisamente mentre ero collegata on line. Sono letteralmente scoppiata a piangere. Ed ho pianto a lungo, a lungo. Ho sentito l’impulso infermabile di scrivere qualche riga; e così ho fatto.
Ma in quelle righe non c’era quello che era considerato un legame personale con i film di questo immenso regista sudcoreano poiché ritenni di attenermi solo alla sfera d’argomento che può avere un critico cinematografico, o meglio a chi fa (anche) critica ed analisi cinematografica.
Qui ed ora, invece, sento che posso scrivere liberamente dell’aspetto personale che la sua opera ha avuto in un tratto decisivo della mia esistenza.
Allora, da che cosa è rappresentato questo legame personale? Nell’ottobre e novembre del 2003 feci il mio primo viaggio in India (e Nepal). Feci il mio primo viaggio in Asia. Da quel momento in poi c’è stato uno studio ed un approfondimento “matto e felicissimo” del pensiero, delle religioni e delle tradizioni che costituiscono il continente asiatico; un approfondimento fatto di libri e, soprattutto, di viaggi. Dal 2003 al 2020 ho viaggiato per 24 paesi asiatici; e, in alcun di essi, più volte.
Nel giugno del 2004 ho visto per la prima volta Primavera, estate, inverno… e ancora primavera di Kim Ki-duk all’Alcazar di Roma – una sala che oggi non esiste più. E fu una folgorazione. Recuperai i precedenti L’isola e Bad Guy per poi vedere in successione tutti i suoi film che via via uscivano: La Samaritana, Ferro 3, L’arco, Time, Pietà ecc.
Fu una folgorazione perché non solo riconobbi in me quel paesaggio, come se quel paesaggio costituisse una porzione importante del mio Sé, ma soprattutto perché riconobbi – e quindi mi fu finalmente chiarissima – la weltanschauung che forma e sostanzia il buddhismo. E non solo.
La potenza, la densità, la profondità, l’originalità estrema dei suoi film mi hanno conquistato senza alcuna remora.
Il senso pittorico della composizione conservato – nasce pittore – in ogni inquadratura sì che l’immagine “parli” più e meglio di qualsiasi parola; il ruolo rivelatorio, quindi, che ha il silenzio a fronte di una grande sfiducia nella capacità delle parole di esprimere autenticamente e pienamente ciò che l’uomo sente e pensa, sogna ed aspira.
L’esistenza percepita come una successione ondivaga di violenza e tenerezza, disperazione e felicità, dolore e soddisfazione, radicata inimicizia e umanissima compassione. E dove la sessualità, l’amore carnale ha uno spazio ed un peso imprescindibili nella vita degli umani. La forza del cambiamento vissuta come un percorso spirituale – di innalzamento. E l’anelito alla libertà che alberga nell’animo di ogni cercatore spirituale. E l’inafferrabile potenza dei sogni.
E, soprattutto, il suo riportare le cose alla loro natura primigenia, e di filmare questa natura primigenia delle cose senza filtri, senza mediazioni. Il tutto con la profonda consapevolezza della inscalfibile solitudine che stringe ogni essere.
Primavera, estate, inverno… e ancora primavera è un magnifico apologo sul samsara (il mondo del divenire ossia “il ciclo delle esistenze condizionate”) e sull’educazione alla compassione. Il flusso delle stagioni, vita-morte-rinascita, così impersonale nella sua ripetizione può essere abbandonato solo se si ha in vita un comportamento così retto verso tutti gli esseri senzienti e se si raggiunge quella consapevolezza delle cose (chiamata anche illuminazione) che permette di non rientrare nel samsara, di non rinascere bensì di estinguersi (nirvana). In pali nirvana significa proprio estinzione. Ed è questa l’aspirazione massima di ogni buddhista.
Ho visto, come scrivevo, quasi tutti i suoi film fino all’ultimo Geumul (The net) del 2016, arrivato in Italia nel 2018 con il titolo Il prigioniero coreano. Un film diversissimo da tutti gli altri, un film a tesi eppure tesissimo su come l’odio introiettato in profondità di un paese indicato come nemico non abbia confini e si manifesti sia in una società capitalistica, sia in una società comunista. E porta solo a violenza sopraffattrice, corruzione e meschinità. «Quando un pesce è nella rete è un pesce morto» dice ad un certo punto Chul-woo, il protagonista, dopo l’ennesimo interrogatorio, fatto di torture ed umiliazioni.
Ho visto anche il documentario Arirang, dove Kim Ki-duk racconta l’esperienza e l’uscita da una crisi personale ed artistica, e il tenerissimo corto My mother dove la vera madre di Ki-duk gli cucina e gli parla come sempre le madri cucinano e parlano ai propri figli qualsiasi età essi abbiano.
Le potenti immagini dei suoi film, scrivevo, hanno accompagnato le altrettanto potenti immagini ed esperienze dei miei viaggi in Asia. La sua opera ha scandito la mia scoperta dell’Asia: dopo l’India e il Nepal, ecco la Cina e Hong Kong, e poi la Birmania, il Tibet, la Cambogia, l’Indonesia, ancora l’India e il Bhutan, e poi il Vietnam, la Mongolia, la Thailandia, il Laos, e l’Uzbekistan, il Kyrgyzstan e la Cina, il Bangladesh, ancora l’India dell’Assam e dell’Arunachal Pradesh, la Malesia e Singapore, il Giappone, l’India del Ladakh, e L’India del Nagaland e dell’Orissa, lo Sri Lanka, il Turkmenistan, l’India del Kerala, del Tamil Nadu e del Karnataka, il Kazakhstan, il Tajikistan e ancora il Kyrgyzstan, l’India del Gujarat e di Goa, ancora il Nepal e il Tibet (con la kora del Kailash, la montagna sacra) e le Filippine – l’ultimo viaggio nel gennaio del 2020 prima che imperversasse un virus che portò alla chiusura di tutte le frontiere.
Saltato quindi il viaggio progettato nell’aprile del 2020 proprio in Corea del Sud, il paese natale di Kim Ki-duk. Un terribile segno che non ho saputo interpretare. E chi avrebbe potuto, del resto? Forse solo uno sciamano, un indovino o un trülku.
Kim Ki-duk è morto in una stanza d’ospedale di Riga, in Lettonia, dove si trovava per preparare il suo nuovo film, «per complicanze dovute al covid», come scrissero le testate di tutto il mondo. Intorno a sé, nelle sue ultime ore di vita, ha sentito i suoni di una lingua straniera. Non la sua. Provo ad immaginare quello che può aver provato. Provo. Perché da narratrice so che posso farlo. Ma non lo scrivo qui. Per pudore. E per rispetto.
Quando muore un uomo, nelle terre buddhiste himalayane, si recita il Bardo Tödöl (il Libro Tibetano dei Morti). Perché la liberazione avviene attraverso l’udire. Lo spirito del morto deve attraversare una specie di interregno dove è sottoposto a molte prove, che deve superare.
In queste prove ci sono anche visioni orrifiche. Ed io ho sperato con tutta me stessa che la bellezza della sua filmografia lo abbia aiutato a scegliere la giusta via nel suo passaggio del Bardo.
A noi, che siamo ancora nel samsara, la bellezza dei suoi film ci può aiutare ad attraversare questa ruota dell’esistenza con una consapevolezza folgorante.
Maria Antonietta Nardone © Tutti i diritti riservati
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