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Maria Antonietta Nardone

Un cuore ferito



VERSI LIBERATI

 di Evelina Piscione

 Studium Edizioni - 2024

 

 

A due anni dall’uscita del suo bellissimo romanzo d’esordio, Anni di grazia (Castelvecchi editore, 2022), Evelina Piscione dà alle stampe una raccolta di poesie intitolata Versi liberati.

  Partiamo subito dal titolo: perché versi liberati? Ci si libera quando si è in cattività. E a quale cattività, a quale prigionia si allude? La prima poesia, Sulla soglia dell’alba, ci presenta un io che, al sorgere del sole, si nasconde; si nasconde e chiude le finestre. Alla seconda poesia, c’è un muro. Alla terza, si parla di un oltre. È un io prigioniero, quello che parla. Ed è un io che vede, che vuole vedere oltre le finestre chiuse ed oltre i muri. Continuando a leggere, apprendiamo che il mito platonico della “parte mancante” è tutta un’illusione; una pericolosa illusione. C’è quindi un amore che non libera, ma che imprigiona. Nella poesia 2 novembre 2000 colpisce l’incipit struggente «Mio padre è morto di diabete», con quella bambina interiore che dice a se stessa che «questo non può essere vero»; «non te, non ora, non qui», la purissima sintesi di un’inaccettabilità che coglie ogni figlia a cui muore il papà prematuramente. C’è qui una perdita che fa ancora piangere la bambina che l’ha subita.

  Si profila davanti ai nostri occhi un io prigioniero della sofferenza. Di una sofferenza che ha più origini e diverse forme che lo stringono nella sua morsa multiforme. E quest’io vuole, con tutte le sue forze, fuggire da questo «penitenziario», che porta anche tutta una condizione di isolamento e solitudine.

  Conosciamo gli sguardi che diventano parole; le parole che si muovono fino a diventare versi; versi che si configurano in immagini in movimento, come in un film. E tutto questo è spinto dalla sofferenza; da una sofferenza che non si autocompiace della sua esistenza. Da una sofferenza lunga, cruda, a tratti arrabbiata con chi, per statuto famigliare, avrebbe dovuto contribuire a romperla senza indugio, e da cui l’io che racconta cerca varchi per liberarsi. E lo fa; lo fa in alcune “uscite” bellissime, come ad esempio il flash di sole e di pace nell’orto «di bianchi ciliegi / di prossime rose» (riagganciandosi all’infanzia) oppure il cuore, un cuore che, a dispetto dei dolori e dei colpi che riceve (ed accoglie) durante la sua esistenza, è comunque visto come un bimbo, un «bimbo che corre» (detto col nitore dei versi «Non c’è verso / né stortura né inciampo / che possa fermarlo / questo bimbo che corre»).

   E lo fa senza nulla concedere alla retorica o al sentimentalismo. Lo fa mantenendo un equilibrio che stupisce, ma, allo stesso tempo, lo fa senza mediazioni. Senza le necessarie mediazioni della narrativa o del romanzo.  È un libro senza filtri, quindi, che arriva diretto e diritto al nocciolo delle questioni, dei sentimenti e delle relazioni indagate da chi racconta, interroga e si interroga, e, a volte, invoca.

   Vi è un uomo amato, chiuso in un silenzio morboso ed inscalfibile, violento ed inscalfibile. Vi è un desiderio che non muore di tornare a conoscere e a praticare la speranza: la speranza di usufruire del proprio tempo (di quel tempo limitato che ci è dato) con un’identità ben delineata e la speranza di amare ed essere ancora amata. E, quindi, vi è l’apertura ad altri incontri, altri uomini. E poi vi è la presenza di amiche e di amici, di famigliari stretti – toccante la tenerezza dello sguardo di Piscione sulle nipoti, Alessia e Carla,  con quel «Sogni / tra pupazzi / che conosci per nome, / non leggi le storie / le inventi […]» (Alessia) o quel «Piccolo satiro cavato / dal più profondo cuore / della natura» che «ridi inebriata / cerchi emozioni che bevi / in un gioco / d’amore» (Carla); o il dolore per il dolore della sorella «un marmo spigoloso / e ruvido – sorella – / che si scheggia in pianto», vissuto come la «grazia di oggi».  

  Per gli affetti famigliari e gli affetti amicali, i versi di Evelina Piscione mi hanno ricordato i versi famigliari ed amicali di Alfonso Gatto. Da queste poesie, poi, si evince che l’autrice ha una pratica dell’amicizia che collima con la pratica e la concezione della antica Grecia. Per i greci antichi, difatti, l’amicizia è il più nobile dei sentimenti umani; chi non ha amici ha una vita da schiavo – perché lo schiavo non è padrone della propria vita, del proprio destino e delle proprie scelte dacché c’è chi sceglie per lui, il padrone per l’appunto. E l’amicizia non è carità o beneficenza. L’amicizia è un incontro, che c’è o non c’è. E questo l’autrice lo sa molto bene. E senza amicizia, inoltre, non si dà nemmeno individuazione di sé. E basta leggere la poesia Patrizia. «Ci piaceva il vento / corse di moto […] ci piaceva tornare / tepore di casa […] un prezzo abbiamo pagato / e caro l’abbiamo pagato / tutto abbiamo impegnato / quasi tutto / quasi quasi la pelle» per riconoscere questa individuazione di sé data anche dall’incontro con l’altro da sé.

  Nell’autrice si sperimenta, con intensità, la stessa differenza che sempre i greci antichi posero tra eros e filia: l’eros è una forza che sovrasta e possiede l’individuo e che non tiene conto del valore della persona amata mentre l’amicizia è una forza che l’individuo può controllare e dirigere e non può esserci amicizia senza il riconoscimento di un reciproco valore. E poi mentre l’amicizia può essere duratura, l’eros, per quanto possa essere inarrestabile, ha una durata effimera.

   Fondamentale è l’incidenza, anzi l’indispensabilità dell’incontro con l’altro, del dialogo con l’altro, così come, ancora prima, dell’incontro con se stessi. È un dialogo con il trascendente («Misericordia / Dov’è il Tuo risorgere?») ed è un dialogo con l‘immanente (amici, famigliari, uomini, luoghi, sconosciuti) i quali sono sempre tenuti vivi e comunicanti. «Un dialogo con il verticale (dal celeste all’umano) e un dialogo con l’orizzontale (dall’io al noi)», come ha affermato la stessa autrice.

   Il volume è diviso in tre sezioni: Sulla soglia, Touch, Bimbe ballerine. Nella prima sezione, Sulla soglia, sofferenza e solitudine coprono quasi tutto eccetto il ricordo e l’invocazione alla speranza (e basta leggere D’inverno o Sopravvissuti per apprenderne la portata di entrambe:«Noi sopravvissuti, / non un tono / ma un accento, / non un piglio / ma una piega / delle labbra, / non uno stile / ma un incedere ora inquieto / ora malinconico. / Non pretendiamo di essere compresi / né di non esserlo, / solo un fragile richiamo / di misericordia. / Così sia» da Sopravvissuti).

   Nella seconda sezione, Touch, erompe l’eros che spezza le catene della sofferenza e, soprattutto, della solitudine, «il male del secolo». Da notare che qui le metafore sono perlopiù d’acqua, di mare, di onde, di spuma, di pioggia; erompe l’inconscio con tutta la sua forza vitale e ricca di sogni anticipatori e di potenza creatrice. Si manifesta un eros vissuto e dispiegato liberamente, senza regole e/o costrizioni ossia nuove, possibili prigionie. Mentre l’aspettativa amorosa è affidata, soprattutto, all’immagine degli alberi in fiore, siano essi peschi o mandorli; a qualcosa che non può non germogliare.  

   Nella terza sezione, Bimbe ballerine, gli affetti famigliari e quelli amicali trovano quello spazio che permette all’io che scrive di dare profondità, prospettive e senso all’esistenza, perché l’amicizia offre, tra le altre cose, l’accesso ad una vita autentica e multiforme. L’umiltà e l’inconsapevolezza degli amici di portare, con la loro semplice presenza, una qualità umana che non ha prezzo, un sostegno insperato, un ascolto paziente; quell’esserci, senza alcuna idea di un tornaconto personale, è un’esperienza tra le più belle ed intense che si possano provare in questo nostro passaggio sulla terra. L’assoluta gratuità dell’amicizia è un dono di cui Evelina Piscione ha saputo e sa godere con grazia e sapienza.

   Il canto piano, sommesso degli affetti più prossimi mi hanno rimandato ai versi di Attilio Bertolucci (ad esempio a quelli de La camera da letto), con quella affine volontà di descrivere e raccontare i legami più stretti, i luoghi più amati, spesso risalenti all’infanzia, i paesaggi, umani e naturali, con un linguaggio semplice che riserva la complessità alla manifestazione ed all’essenza dei sentimenti stessi e alla descrizione delle azioni quotidiane.

   Degli anni cosiddetti di piombo, e della loro pesantezza e del sangue versato anche sulle strade romane, c’è solo un’eco lontana; così come dell’esperienza vivificante e relativizzatrice dei viaggi, dei grandi viaggi, come quelli in India e in America latina, vi è solo qualche accenno anche se la poesia India sembra la carrellata di un film, tanto è potente ed incisiva la forza visiva che l’autrice imprime alla sua descrizione.

   I “giochi” con le parole, mai virtuosistici ma sempre aggrappati al senso e al significato delle cose e delle parole, mi hanno ricordato invece i versi di Octavio Paz «tra ciò che vedo e dico / tra ciò che dico e taccio / tra ciò che taccio e sogno / tra ciò che sogno e scordo / poesia» da Àrbol adentro.

    Da un cuore che parte imprigionato e ferito, eppur desideroso di raccontarsi, si approda infine ad un cuore non sanato del tutto, ma comunque di nuovo in campo ed in corsa e con la chiara consapevolezza che «non c’è affetto / – mio, caro – / che non porti cicatrici, / una traccia di ambigua meschinità. / Questa la mia spina nelle carni / che salva da ogni presunzione?».

   L’ultima poesia, Cucciolo, «Cucciolo era il mio nome dell’infanzia / quando mi accoccolavo a te / sotto l’enorme bianco lenzuolo / e scalciavo a brevi intervalli / cercando il mio piede / - in crescendo –  / il tuo, / perfettamente giapponese» recupera la memoria di un materno caldo ed accogliente con cui, infine, dissolta «la strega» dalla «sequenza fiabesca» e dissoltasi «la nube della minaccia», può esserci pacificazione.

   L’autrice pone ad epilogo della sua raccolta una poesia ispirata al film Perfect days di Wim Wenders. Quel sole che filtra tra le foglie, e a cui il protagonista dà il buongiorno ogni mattino, è la chiusa perfetta che si ricongiunge alla poesia che apre l’intera silloge, Sulla soglia dell’alba, dove la luce del sole che filtra dalle finestre sa ancora di sarcastico insulto e di dolente prigionia.

  Finendo di leggere questi versi liberati a me è venuto in mente invece un altro film, L’ultimo giro di Thomas Vinterberg, e un’altra scena: quella danza finale quando, a diplomi già consegnati agli studenti, tutti insieme, allievi e professori, si canta, si urla, si danza e si beve, in un’esplosione vitale così potente da stordire. E quel tuffo a fermo immagine che fa il protagonista, e che chiude il film, mi richiama tutto quel desiderio pressante di rituffarsi nel mare della vita che ha percorso ed attraversato l’intero libro di Evelina Piscione fino alla liberazione finale.

   Mi piace chiudere queste mie considerazioni con la lettera che John Keats scrisse al fratello nel 1819:«Chiamate il mondo, vi prego, “la valle del fare anima” e allora scoprirete qual è la sua utilità. […] Dico fare “anima” per intendere qualcosa di diverso dalla “intelligenza”. Possono esistere milioni di intelligenze o scintille della divinità, ma esse non sono anime fino a quando non acquisiscono identità, fino a quando ognuna non è personalmente se stessa». Questo pensiero è stato ripreso dal pensatore e psicoanalista junghiano James Hillman che nel suo libro Psicologia archetipica così scrive:«L’atto del fare anima consiste nell’immaginare: le immagini sono la psiche, la sua materia e la sua prospettiva  […] Volendo dare una risposta ai tanti che mi chiedono che cos’è la poesia dico: la poesia è semplicemente “fare anima”. Dove per “fare anima” si intende uno sforzo per la comprensione di se stessi, al fine di acquisire una propria singolare identità, e, ovviamente, una collocazione nel mondo che ci circonda. Poesia come comprensione, creazione ed esteriorizzazione di immagini appartenenti alla propria interiorità».

   Ecco, non v’è alcun dubbio, in me, che Versi liberati siano stati il bisogno di scendere nella “valle del fare anima” di Evelina Piscione che ha compiuto lo sforzo di comprendere se stessa, acquisendo così una sua propria singolare identità ed una sua propria collocazione nel mondo, offrendoci immagini di folgorante bellezza scaturenti dalla sua propria interiorità.

 


 

Maria Antonietta Nardone © Tutti i diritti riservati

 

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