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Maria Antonietta Nardone

Vita di una parrucchiera imperiale


(Foto della locandina presa dal web)

 

 

 LA PARRUCCHIERA DELL’IMPERATRICE -

 testo di Franca De Angelis

 regia di Christian Angeli

 con Patrizia Bernardini, Giovanni Sansonetti

 Centro Culturale Artemia - Roma

 


In un’arena rettangolare, formata da palco e platea riuniti, con dislivello, e spettatori che contornano lo spazio di quest’arena, appare una donna con una benda rossa sugli occhi, guidata da una figura maschile di nero vestita.

   Chi è? Che cosa sta raccontando? E che rapporto c’è tra lei e la principessa Sissi, che è stata appena accoltellata a Ginevra? Fanny Angerer, settima figlia di un’umile famiglia della periferia viennese, nonostante le violenze e le umiliazioni subite fin da piccola, vuole fortissimamente uscire da una condizione di degrado per lei insopportabile, vuole diventare qualcuno, e, nella sua ascesa che passa da un teatro alla corte dell’imperatrice d’Austria, regina apostolica d’Ungheria, regina di Croazia e di Boemia, universalmente conosciuta come la principessa Sissi, dove approda come parrucchiera personale, c’è una determinazione ed una tenacia che commuovono.

   In trent’anni di vita di corte, Fanny, divenuta perfino una baronessa, conosce l’autentica vita dell’imperatrice, non libera in nulla, nemmeno di fare una passeggiata o entrare in una pasticcieria, dal momento in cui è stata incoronata, se non nella gestione e controllo del proprio corpo, che allena ossessivamente in lunghe sedute di flessioni o in sfiancanti cavalcate, nutrendosi solo di latte di capra. E le ambizioni di Fanny saranno soddisfatte? Certo, sotto il profilo sociale la sua condizione ha raggiunto una posizione impensata, pensando alle sue origini, ma è stata amata? È diventata «immortale e ricordata da tutti» come l’imperatrice? Per lei, alla fine, non c’è che disillusione: non è stata amata. L’immortalità autentica, constata, non è quella dell’imperatrice Sissi, ma è quella dei grandi artisti come Shakespeare o Heine; e lei non è un’artista.

   Stupisce, tuttavia, che nonostante le violenze fisiche e psicologiche subite, questa bambina e poi donna non si pianga mai addosso, non si lamenti mai, non si auto-commiseri mai. E sottolineo, mai. C’è della grandezza in questa sua reazione volitiva di pensare ed agire senza indulgere in alcun lamento. E tocca nel profondo, nel finale, ormai morente, quel suo «sono una peccatrice», che è come dire, ho provato, ma sono stata sconfitta.

   Colpite entrambe dal dolore più terribile che possa investire delle madri, ossia la morte di un figlio/a, sia l’imperatrice sia la parrucchiera sono costrette a ingoiare in fretta quel dolore straziante, a smaltirlo al più presto per riprendere il loro “posto”, il posto e il ruolo che hanno nella loro esistenza. All’interno di questo destino chiuso e predeterminato, cercano, ciascuna a suo modo, di ritagliarsi uno spazio di autenticità (la felicità è del tutto bandita).

   Tra le due, inoltre, si instaura una relazione tra serva-padrona che vede l’imperatrice portare vessazioni ed offese gratuite alla sua parrucchiera personale, che pure ha inventato per lei l’“acconciatura a corona” che diventerà l’emblema distintivo dei suoi ritratti più celebri. E la smielata e melensa Sissi del film del 1955 interpretato da Romy Schneider, subisce, grazie a questo spettacolo, un colpo decisivo. Cade la maschera ed Elisabeth appare per quello che realmente è: un’anoressica, depressa ed infelice donna che, pur essendo nominalmente un’imperatrice non può decidere quasi nulla della sua stessa vita. Che paradosso! Ma anche che potente demistificazione!

   Sia all’autrice sia al regista interessa indagare oltre all’aspetto psicologico anche l’aspetto sociale di un maschile ottocentesco che imponeva al femminile di essere solo maternità e bellissima apparenza; togliendo alle donne non solo la loro individualità, ma proprio lo statuto di individualità e quindi di conseguente realizzazione di sé come persona. E la figura nera interpretata da Giovanni Sansonetti che potrebbe simboleggiare il destino o la fortuna (cieca), le norme sociali da rispettare oppure anche la spinta all’individuazione del Sé, è un’invenzione registica che si muove proprio su questo solco.

   La regia di Christian Angeli è molto ingegnosa. Innanzi tutto l’idea dell’arena che permette di rendere tutto il movimento di questo monologo come una danza di vita e di morte di Fanny Angerer senza alcuna caduta di attenzione da parte dello spettatore. L’adozione poi di oggetti, come di arte povera (il drappo rosso, le pezze sporche, le uova nella gamella, il cerchio come specchio ecc.), tolgono tutta l’orpelleria ottocentesca per arrivare alla nuda sostanza delle urgenze portate dal testo di Franca De Angelis che in questa sua ricerca drammaturgica continua ad indagare sia il positivo sia il negativo del femminile, le profonde insoddisfazioni e frustrazioni di una condizione femminile di due secoli fa (ma non solo) e il perseguimento di un ideale di bellezza e perfezione, concentrato solo ed esclusivamente sul proprio corpo (come sono anche i vari lifting odierni, un’improbabile, fallita ed insana fuga dall’invecchiamento operata esclusivamente sul proprio corpo).

   Del resto, anche la scenografia con scritte su cartelli come «Quando una bambina sogna di essere una principessa, senza saperlo firma per un abuso», «Quando una principessa sogna di essere una comune mortale, senza saperlo firma per essere quella bambina», è una chiara dichiarazione di intenti. Mi è piaciuto moltissimo poi questo seguire la protagonista con una torcia, come a stanarla, spiarla, interrogarla costantemente.

   L’interpretazione di Patrizia Bernardini incanta per coraggio e per carica passionale. Seguiamo i racconti di vita di questa parrucchiera imperiale grazie alla sua capacità di trovare toni diversi per i diversi passaggi del suo personaggio: da quelli volitivi a quelli più delicati e quasi soffiati (la morte del figlio di pochi mesi), da quelli comici a quelli drammatici, ottenuti tutti con una fluidità ed una disinvoltura che portano all’ammirazione. Per non parlare della sua continua ed instancabile “danza” in questa arena dove la vediamo fare inchini o balletti, sdraiarsi per terra o addossarsi ad una colonna nera, specchiarsi o parlare a se stessa in questa rincorsa di Fanny verso ambizioni ed aspirazioni che costituiranno la sua esistenza, comunque infelice ed insoddisfatta.

   Bella la complicità e l’affiatamento con Giovanni Sansonetti, che affianca la protagonista con precisione ed affettuosa attenzione.

   Siamo proprio sicure, noi donne del terzo millennio, di essere così lontane e diverse da Fanny o da Sissi? Siamo poi così sicure di esserci concretamente ed interiormente liberate? E ci chiediamo mai quanta libertà sia effettivamente a nostra disposizione; oppure ci domandiamo di quanti riti vuoti e stanchi, che però si trascinano ancora oggi, si è ancora prigioniere, più o meno consapevoli? Qui, in Italia, dove c’è una donna uccisa ogni tre giorni, ossia 120 femminicidi all’anno, quali libertà sono state effettivamente conquistate? Queste e tante altre domande scomode, tante altre riflessioni urticanti lascia vagare per la mente questo stimolantissimo spettacolo.

 

 



Maria Antonietta Nardone © Tutti i diritti riservati





(Photo by Virginia Duca)

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